Interpreti: Richard Jenkins, Hiam Abbass, Haaz Sleiman, Danai Gurira
Paese: Usa, 2007
Richard Jenkins. Forse il nome di questo attore non vi dirà nulla, eppure si tratta di un artista estremamente bravo e convincente. Se citassi Burn After Reading dei fratelli Coen comincereste a inquadrarlo dandogli il volto del dolce e saggio Ted della palestra. Formatosi in ambiente teatrale Jenkins è diventato celebre grazie alla serie tv Six feet under e ha saputo coniugare l’arte drammatica con quella comica senza dimenticare i ruoli impegnati. Nel nuovo film di Tom McCarthy che verrà distribuito entro i primi di dicembre in Italia il ruolo del protagonista è tutto per Richard Jenkins che interpreta la parte di Walter, un professore universitario alquanto monotono. Vedovo e alienato dal proprio lavoro, l’uomo vorrebbe diventare un bravo pianista come lo era la moglie, ma l’incontro fortuito nella sua casa di New York con una coppia di immigrati dimostrerà che il talento musicale prevarica i ricordi a cui è rimasto testardamente legato. Tra gli inaspettati coinquilini e Walter nascerà una bella amicizia attraverso la passione per la musica vista come strumento vincente di dialogo interculturale. Quando il giovane Tarek viene arrestato ai tornelli della metropolitana pur non avendo commesso alcun crimine, ha inizio l’odissea dei protagonisti, sconvolti e impotenti di fronte a un’America che in cui non si riconoscono.
The visitor (questo il titolo originale) nasce da una storia vera sul quale il regista si è documentato anche grazie un lungo soggiorno a Beirut. Un giovane mediorientale viene arrestato senza nessun capo d’accusa e rinchiuso in un centro di detenzione (in Usa ve ne sono diversi) dove rimane qualche anno o pochi mesi e poi forse rispedito al Paese di provenienza, senza preavviso, senza lasciare traccia. La storia è sempre la stessa, è una storia che si ripete ogni giorno, è una storia che si consuma all’ombra di un 11 settembre che ha cambiato profondamente il concetto di paura nello spirito americano. Una realtà di cui forse non tutti sono a conoscenza e di cui pochi almeno qui in Europa parlano, ma l’inadeguatezza della legislazione americana in materia di immigrazione sta lentamente venendo a galla, e le cause sono principalmente abusi e morti sospette. Il dipartimento per l’immigrazione americano denominato ICE (Immigration and Customs Enforcement) pare sia barricato dietro muri di silenzio avendo eliminato ogni tipo di comunicazione con l’esterno. I familiari del detenuto – come nel film di McCarthy – non hanno più alcuna notizia di questi “ghost prisoners”, esattamente come se la persona in questione non fosse mai esistita.
L’ospite inatteso ci ricorda che l’eredità lasciata da Bush è quella di un sistema vecchio e arretrato che non riflette e non risponde alle esigenza di una popolazione perlopiù atterrita e spaventata. Problematiche d’Oltreoceano a parte, il film di Tom McCarthy possiede diversi livelli di lettura: oltre alla denuncia contro politiche obsolete emerge una bellissima storia di amicizia, raccontata con estrema sensibilità scordando le posizioni pregiudiziali dei nazionalisti più incalliti. La cura alla misantropia di Walter è la vicinanza a un mondo ignoto, alle dinamiche che legano persone e suoni apparentemente lontani, ma che poi si rivelano già in lui contenute. Sono sensazioni, profumi, esperienze che non attendono altro che affiorare nella coscienza di un uomo stanco di vivere. Sebbene tratti di una esperienza drammatica il film è costellato di momenti divertenti; una comicità sana e leggera, sorprendente, non banale. Richard Jenkins/Walter è come un impacciato Mr. Bean solo un più cupo e più pavido. Sempre composto anche nei sentimenti il protagonista rischia di diventare un individuo alienato da un lavoro privo di passione e da un’esistenza grigia che solo una bellezza arabesca come quella di Hiam Abbass (nei panni di Mouna) può scuotere dal torpore. A proposito di questa attrice dalla superba avvenenza vi anticipo che sarà la protagonista de Il giardino di limoni, piccolo gioiello cinematografico attesissimo per la prossima stagione e di cui senz’altro parleremo. La musica curata da Jan Kaczmarek è protagonista a pieno titolo nel film. Si esplica in un confronto-raffronto tra musica classica in quattro tempi e musiche afro-jazz in tre tempi; un parallelismo musicale per spiegare le diversità tra Occidente e Oriente e, per contrasto, evidenziare anche la vicinanza tra America e ritmi latini. Diversamente da ciò che diceva Theodor Adorno, il movimento Jazz incarna un passaggio sociologico importante non solo nella cultura afroamericana ma anche nella più ampia storia della musica colta, studiata e pensata.
Nell’accezione più antica con il vocabolo “ospite” s’intende “colui che accoglie”. In questo film i ruoli tra l’ospite e l’ospitante si sovrappongono confondendo doveri e cortesie reciproche. Chi è dunque l’ospite inatteso? Un titolo davvero calzante per una pellicola che getta una nuova luce su inquietanti retroscena con cui il neo eletto Obama dovrà (saprà?) fare i conti.
chiarOscura