Regia: Fernando Meirelles
Interpreti: Ralph Fiennes, Rachel Weisz, Huber Koundè, Danny Houston, Bill Nighy, Juliette Aubrey, Peter Postlethwaite,
Paese: Gran Bretagna – Germania – 2005
Il soggetto di “The Constant gardener” non è una storia vera, tuttavia è una storia verosimile. Girato da Fernando Meirelles – autore di culto noto al grande pubblico per City of God e il recente Tropa de elite – il film, basato su un romanzo di John Le Carrè, narra innanzi tutto della tragica storia d’amore di una coppia inglese, intrecciata alle vicende di un continente martirizzato come quello africano.
La passione civile di Tessa, giunta in Africa al seguito del marito, costituisce la chiave drammatica dell’opera. Tessa, un personaggio a metà tra la giornalista e l’attivista dei diritti civili, viene barbaramente violentata e uccisa, praticamente al principio del film, insieme a un dottore keniota, Arnold Bluhm. L’omicidio è la ragione che spinge il marito a ricostruire la vita della moglie e le ragioni possibili della sua morte, particolare che Meirelles rende facendo un utilizzo largo, e forse eccessivo, del flashback. Justin Quayle, questo il nome del diplomatico interpretato da Ralph Fiennes, giunge facilmente alla ricostruzione dell’ultima inchiesta della moglie, pur dovendo muoversi in una ragnatela di falsità costruite ad arte e tese a depistare le ragioni del delitto verso un movente passionale. Il superamento di ogni dubbio sulla fedeltà della moglie è la porta di passaggio oltre la quale Justin comprende la sincerità e la reciprocità del loro amore e, al tempo stesso, la ragione identificante attraverso la quale questo diplomatico compassato riesce a fare proprio lo spirito combattivo della moglie uccisa. Il pianto solitario di Justin nella Londra autunnale sancisce questo trapasso, riconnettendo le vicende della coppia interrotta. Riallacciato, attraverso l’amore e il pianto, il filo interrotto con una linea temporale spezzata, Justin può ora riprendere l’ultima ricerca di Tessa animato dallo stesso sentimento umanitario per giungere alla scoperta di un sistema criminale di gestione degli aiuti sanitari nei Paesi in via di sviluppo.
Il film si gioca prevalentemente su questo continuo richiamo tra la dimensione individuale e quella collettiva dell’amore, lì dove solo la scoperta del secondo “livello” può rendere plausibile il primo. Al tempo stesso la denuncia sociale in Meirelles, costituisce al solito un motivo costante della critica mossa al perbenismo farisaico del potere. Tuttavia, nonostante la solidità dell’impianto narrativo e la bella crudezza di alcune scene, tipica fra l’altro di questo regista, i diversi piani su cui si muove il film non sempre si innestano bene tra di loro.
L’ampio ricorso al flashback a volte sembra quasi scadere nella giustapposizione e la regia non è coinvolgente come in altri film di Meirelles (e il mio pensiero va subito a Tropa de Elite). Il tema trattato è però di assoluto interesse e richiama la nostra attenzione su una delle pagine più vergognose della storia occidentale, quella degli aiuti umanitari.
Se, di per sé, ogni aiuto umanitario non è altro che un risarcimento dovuto dagli occidentali nei confronti di un Terzo Mondo disastrato da un secolo e mezzo di colonialismo, l’utilizzo degli aiuti per fini di lucro e la politica di sfruttamento del continente africano non sono altro che la prosecuzione di una tradizione storica vergognosa delle democrazie occidentali. Italia compresa, direi, considerando, tra l’altro, che uno degli scandali più noti ai tempi ingloriosi del pentapartito riguardò appunto la nostra partecipazione a progetti di cooperazione per lo sviluppo dagli investimenti faraonici e dai risultati nulli. Lo sfruttamento criminale del continente africano, il sostegno ai regimi dittatoriali, la promozione di forme di sviluppo distorte come la rivoluzione verde, sono tutte costanti nascoste della vita quotidiana di molti occidentali “puliti”, che “ripagano” la loro falsa coscienza con politiche dell’immigrazione scioviniste. Se un film apre gli occhi su queste vicende, per quanto imperfetto esso possa essere, merita comunque un riconoscimento e anche se la storia narrata non è vera, la verosimiglianza non può che scuotere le nostre coscienze. Perché Tessa Quayle e Arnold Bluhm certo non sono esistiti che nella finzione filmica o letteraria, ma Ilaria Alpi e Miran Hrovatin sono morti davvero. E come loro molte altre persone, chi per sete e fame di verità e giustizia e chi per semplice sete e fame, tutti però obbligandoci al dovere civile della memoria e dell’indignazione.
ciao Paul,è finalmente uscita la rivista, fresca fresca di questi istanti (21.51 .17 novembre) Vado a leggere anch’io. A presto,ferni.Qui è sempre uno spettacolo.Un bacio anche a Chiara,ferni
questo il link per leggere il tuo articolo. ciao,ferni
Ciao Fernanda, lo leggerò (e mi rileggerò) stasera.
In settimana posterò il pezzo su controreazioni mettendo questo come link di “rimando”.
A presto, Paul.
mi colpisce che sia il cinema, qualcosa che, in fondo, non ha la stessa larga diffusione dei media, pur utilizzando spesso gli stessi strumenti, a farsi portavoce, attraverso lettura documentaria, dei fatti che accadono sotto i nostri occhi, ma restano accecati da falsa informazione o informazione mancante. Un film-Luce, quasi…sperando che non tornino quei tempi.grazie ferni
nota di lavoro:sistemate le informazioni sulle rivista. Ciao Greg.ferni
Ciao Fernanda, finalmente ho un pò di tempo libero, per rispondere ai commenti.
Ti faccio i miei complimenti per la rivista, è davvero piacevole da leggere.
Sul cinema: il cinema ha sempre svolto una funzione sociale, a dire il vero penso che un’arte senza funzione sociale non abbia senso. Tuttavia ho sempre diffidato del cinema “impegnato”, a stento la ritengo una forma d’arte.
Riguardo al film, a essere sincero non mi ha particolarmente entusiasmato, per le ragioni citate nella recensione. L’ho trovato per larghi versi insufficiente anche se è probabilmente più difficile trattare un tema come questo senza scadere nella retorica che, credo, è spesso il frutto di un complesso di colpa non espresso verso il continente africano. Avrei preferito un film più crudo e, sebbene Meirelles sia brasiliano, meno eurocentrico.
Tuttavia, come già detto da Chiara in precedenza, aprire una finestra sul cinema significa anche non essere iperselettivi, ma considerare il “fenomeno” nella sua complessità (e nei suoi prodotti incompiuti, altrimenti si fa la figura di quelli che pensano che ogni film detto “d’autore” sia tautologicamente un capolavoro).
Detto questo, scusami per il ritardo con cui ti ho risposto, ma solo ora rieco a “respirare” un pò.
A presto, Paul.
non preoccuparti:ora tocca a me ad avere poco tempo. Sono passata qui di corsa perchè non mi sembrava rispettoso non verifecare le risposte.Si tratta di una relazione anche questa, e a me interessa molto uno scambio con voi. Grazie,ferni e, sì, condivido quanto affermi qui sopra per molti aspetti.
verificare..naturalmente.scusa l’errore.ferni
[…] narcotrafficanti. Ed è un’opera che va letta in comparazione anche con il molto meno riuscito “The Constant Gardner”, sempre di Meirelles, con cui “La città di Dio” condivide solo l’essere stati tratti […]