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Archive for 11 Maggio 2010

Regia: Guillermo del Toro

Interpreti: Alex Angulo, Ivana Baquero, Doug Jones, Sergi López, Maribel Verdù

Paese: Messico-Spagna-U.S.A. (2006)

“Il Labirinto del fauno”, così come il precedente “La spina del diavolo”, è ambientato nel corso del conflitto civile spagnolo, ma in una fase, successiva alla fine delle ostilità ufficiali – siamo infatti nel 1944 – in cui la dittatura di Franco è ormai del tutto affermata e non restano che poche sacche di ribelli,  confinati in una montagna non ben specificata, a resistere contro il fascismo avanzante. L’intreccio tra storie individuali e storia collettiva, a tragedia della repubblica ormai consumata, si fa qui molto più evidente e diretto che non ne “La spina del diavolo”, in cui, appunto, il conflitto in corso era sotteso agli eventi ma nell’economia visibile del film occupava uno spazio ben più ristretto. Al tempo stesso si afferma la separazione tra quei due mondi, onirico e materiale, che nel suo precedente lavoro Del Toro aveva tenuto fortemente insieme, al punto da attribuire all’intervento dell’irreale sul reale la chiave di volta di tutto l’intreccio drammatico.

Ne “Il Labirinto del fauno” il mondo irreale è confinato esclusivamente nel rapporto tra la giovane protagonista femminile – Ofelia –  e quell’universo misterioso e mitico dentro il quale lei viene condotta dal fauno, a sua volta annunciato da fate che prendono le forme del reale – in questo caso quelle di una libellula – per introdurla all’irreale, o a una nuova dimensione che probabilmente coincide con l’al di là. All’esterno di quel labirinto, che è costruito non a caso dentro un bosco, ossia in un altrove non solo spaziale ma anche temporale rispetto alla città degli uomini, si pone il mondo reale che prende per fantasie o peggio ancora per vaneggiamenti, o nere magie, le visioni e le pratiche che Ofelia sperimenta a contatto con il fauno. La distanza tra i due mondi è marcata dal loro differente rapporto con il tempo, questa diversità di rapporto con il tempo implica a sua volta due diverse categorie in cui la descrizione dei mondi va a inquadrarsi.

Il mondo irreale, e che sarebbe più corretto chiamare fiabesco, è quello del mito e dal mito deriva l’indeterminatezza del tempo, oltre che lo stile narrativo e qualche riferimento colto. Il mito è caratterizzato, infatti, come prima cosa dall’avvenire in un tempo mai quantificato che è poi il tempo comune alle fiabe moderne e agli eroi greci corrispondente alla formula iniziale del “c’era una volta”. L’assenza, dal principio, di un benché minimo inquadramento spazio-temporale del mito è corrispondente alla mancanza di ogni linearità nel tempo che esso scandisce: il mito è narrazione privata del bisogno di sentirsi scienza, ragione per cui non apre una catena di connessioni causali ma viene raccontato per essere tramandato. Il mito, ossia, non crea affatto futuro, e quindi non costruisce una linea del tempo, ma rinnova un eterno passato a cui si rimanda la suggestione del ritorno senza però mai azzardarsi a svelarlo del tutto, perché altrimenti verrebbe meno la carne di mistero di cui la narrazione non esaustiva si alimenta. Alle figure del mito, inoltre, il regista si richiama, sia nella figura del fauno sia, soprattutto, nei riferimenti sparsi, il più evidente dei quali è quello rintracciabile nella scena che ha per protagonista l’orco divoratore di bambini e che richiama alla mente la storia di Proserpina e dei frutti di Ade. Il mito, infine, chiude un cerchio e, a differenza della vita, rinnova in questa circolarità l’eterno e il superamento della morte, anche in questo caso intesa come redenzione ma una redenzione circoscritta, appunto, a quel mondo “irreale” e quindi non percepibile come tale da chi si ritrova a vivere in una dimensione altra.

Nella dimensione altra la circolarità scompare del tutto, la storia ha una sua cornice temporale precisa e tutta la lotta alla fine è finalizzata intorno a un orologio e a una discendenza patrilineare: il primo è un mezzo che scandisce, sebbene con l’ausilio di un meccanismo circolare, il trascorrere del presente in futuro; la seconda è l’incarnazione materiale del futuro nella nuova vita di un bambino la cui genitorialità è risolta nel finale. Anche in questo caso, tuttavia, la risoluzione del “dramma” coincide con una redenzione del dolore.

Sui due concetti di tempo, e quindi sui due mondi, brilla la costellazione cattolica della “salvezza” che, per quanto amara possa essere, ha un tono forse più edulcorato, e buonista, che non nel precedente “La spina del diavolo”, cosicché la scorrevolezza e il fascino dell’impianto narrativo vengono interrotti da un finale che è il punto meno realistico, e più retoricamente hollywoodiano per dialoghi ed avvenimento consumato, dell’intero film. L’equilibrio creato tra tempo circolare e tempo lineare, in cui il primo ha a priori una potenzialità armonica che al secondo manca, alla fine viene ricondotto alla circolarità e all’armonia del primo annullando, o riducendo a strumento retorico, il secondo. Questa scelta indebolisce tutto l’impianto di un pur ottimo film che ha il merito indubbio di restituire i fascisti di ogni razza all’assenza di dignità e gloria che non hanno mai avuto e che però qualche “anima bella”, almeno in Italia, da anni tenta proditoriamente di assegnare loro.

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