Regia: Guillermo del Toro
Interpreti: Marisa Paredes, Eduardo Noriega, Federico Luppi, Fernando Tielve, Irene Visedo
Paese: Messico – Spagna 2001
La struttura dei due film più conosciuti, e meglio riusciti, del regista messicano Guillermo del Toro – ossia “La spina del diavolo” e “Il labirinto del fauno” – presenta molti tratti in comune e, soprattutto, condivide uno stesso, identico, riferimento escatologico-religioso dal carattere cattolico. La costellazione sotto cui possiamo circoscrivere i finali di entrambe le opere è, infatti, quella della redenzione, termine che va qui inteso non tanto come percorso di recupero interiore del colpevole di fronte alla consapevolezza della propria colpa, quanto come atto che sana una condizione di vizio addebitabile a un colpevole che non solo non viene redento ma, anzi, viene ucciso in entrambi i casi. A essere redento, e per questo siamo del tutto interni a una cultura cattolica, è il male compiuto verso un innocente o verso degli innocenti. Questa condizione è ancora di più marcata dal fatto che gli innocenti che hanno subito degli ingiusti torti nei film sono quasi esclusivamente dei bambini in modo da rendere ancora più intenso il carico di colpa del reo e il bisogno di redenzione della vittima. Al tempo stesso questa evidenza del finale è pensata per due scenari molto diversi. Nel primo caso – “La spina del diavolo” – la redenzione del peccato che ha originato la frattura nella realtà avviene nella realtà stessa e attraverso una feroce vendetta, mentre nel secondo caso – “Il labirinto del fauno” – la redenzione si realizza nel mondo del sogno e della fiaba, conducendo a un finale ritorno all’armonia che tuttavia è collocato altrove dal mondo reale, dove domina ancora il conflitto.
“La spina del diavolo”, il film di cui ci occupiamo in questa riflessione, è, appunto, un’opera che trova il suo significato del tutto all’interno di un mondo reale. Tuttavia la realtà in questione è allargata oltre i confini classici della sensibilità perché al suo interno, come antiche divinità che aiutano lo svolgersi degli eventi senza però poterlo determinare in assenza del ruolo centrale degli umani, si muovono dei fantasmi materiali, niente affatto spiriti ma corpi che non hanno potuto accettare una morte particolarmente violenta. Questi corpi sono ulteriormente materializzati dall’essere legati allo spazio circoscritto in cui essi sono stati violati e per questo la vicenda narrata è concentrata su una unità di luogo particolarmente accentuata. La storia descritta si muove quasi del tutto all’interno delle mura di un vecchio orfanotrofio mentre la “Storia” sottesa, i macroeventi, si svolgono al suo esterno come causa dell’evoluzione drammatica nella forma di ragione silente, quasi del tutto invisibile, degli avvenimenti.
Il fantasma, anzi i fantasmi, protagonisti del film hanno una natura doppia perché sono interni alla storia degli umani e al tempo stesso agiscono all’interno di quella storia senza farne parte a pieno e aspirando a essere liberati da quella “prigione” per poter raggiungere la pace all’esterno delle vicende dei viventi. A questa materialità paradossale delle presenze corrisponde un modello di rappresentazione integralmente estraneo a ogni edulcorazione sentimentale o a una divisione manichea tra il bene e il male, caratteri questi maggiormente presenti, e a ragione, in un’opera dal più chiaro contenuto politico come “Il labirinto del fauno”. Il bene e il male, anzi, sono tra di loro mischiati e se un personaggio, Jacinto, prevale sugli altri per totale assenza di scrupoli è anche vero che la sua malvagità viene commisurata alla sua storia personale da un lato e, dall’altro, al fatto che gli altri protagonisti del film, sia adulti che bambini con la sola eccezione di Carlos, l’ultimo orfano arrivato nella casa, non sono dei personaggi a tutto tondo privi di sfaccettature.
I bambini non sono tautologicamente buoni, gli educatori sono uomini di carne ed hanno anch’essi usato il male che gli si ritorce contro e che è, in fin dei conti, figlio di più genitori in un contesto in cui due genitorialità – quella storica e quella culturale anche se con differente peso – hanno contribuito a formarne la personalità.
Appunto come i fantasmi che popolano le stanze dell’orfanotrofio, i caratteri del film sono uomini a metà, come Casares, il dottore argentino che crede nella scienza ma, fuori da occhi indiscreti, si abbandona al piacere della superstizione. L’elemento risolutore del film, al contrario, è dato proprio dall’unico soggetto che decide di credere fin dal principio e che in virtù della sua differente prospettiva riesce a sanare la frattura e, attraverso un significativo rito di passaggio a cui partecipano sia i vivi che i morti, fa attraversare il limbo ai suoi compagni superstiti traghettandoli, infine, fuori dalla struttura, e dalla microstoria, in cui erano stati confinati e dentro quella “Storia” che, in conflitto con una realtà magica del mondo sempre più evidente, diventerà la protagonista principale de “Il labirinto del fauno”.