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Archive for the ‘Perle dimenticate’ Category

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Regia: Ken Russell

Interpreti: Vanessa Redgrave, Oliver Reed, Gemma Jones, Dudley Sutton, Max Adrian, Murray Melvin, Georgina Hale, Graham Armitage.

Paese: Gran Bretagna, 1971

“- … Desideri essere salvata o no? Rispondi!

–  No! Io… desidero essere… posseduta! Io… lo amo!”

Era il 1971 quando Ken Russell presentò al Festival del Cinema di Venezia il suo dissacrante Devils tratto da I diavoli di Loudun, romanzo pubblicato nel 1957 da Aldous Huxley e a sua volta ispirato a fatti realmente accaduti in Francia nel XVII secolo. Ma andiamo con ordine scavando un po’ nella superstizione popolare e un po’ nella guerra dei poteri del ‘600 europeo. L’eziologia di questa tragica vicenda ha origine da un documento firmato da un vero diavolo in “persona”, – avete letto bene! –  uno dei tanti che affollavano il basso ventre di Jeanne des Anges, superiora delle orsoline di Loudon. Il demone tentatore in questione si chiama Asmodeus e pare abbia posto la propria sigla su un contratto, conservato nella Biblioteca Nazionale di Parigi e datato 19 maggio 1629, nel quale assicura di abbandonare per sempre il corpo della monaca deforme. Il documento appartiene a una serie di prove, per così dire, “schiaccianti” che nel 1634 spedirono sul rogo Urbain Grandier, parroco di Loudon accusato di stregoneria dal barone De Laubardemont.

La complessità della storia narrata da Russell consente diverse chiavi di lettura; ne individuo tre che per immediatezza e per importanza paiono le più significative al fine di sviscerare il messaggio dell’autore ma anche allo scopo di intraprendere un percorso di onestà storica nei confronti di persone e fatti realmente esistiti. La prima racconta l’ascesa sociale e la decadenza corporea ( ma mai morale!) di Padre Grandier (Oliver Reed in una delle sue migliori interpretazioni), un prete gesuita che seduce i cuori delle vergini di Loudon. Nonostante Jeanne des Anges brami, più sessualmente che altro, la sua presenza in convento, Padre Grandier si invaghisce della dolcezza di Madeleine De Brou, una creatura pura e giusta che diventerà sua moglie. I due coniugi innamorati perseverano nel loro peccato ecclesiastico pur rimanendo ancorati all’amore spirituale per Dio a cui non intendono rinunciare. Una seconda lettura narra la vicenda parallela di Jeanne des Anges (indimenticabile Vanessa Redgrave), madre superiora del suddetto convento, creatura deforme e frustrata per la propria condizione di religiosa. Repressa sessualmente e psicologicamente instabile la giovane donna viene convinta – sotto atroci torture – di essere posseduta dal demonio e spronata ad accusare Padre Grandier di stregoneria. Rifiutata dall’avvenente sacerdote ormai sposato e sostenuta dai consigli del barone De Laubardemont, Jeanne trascinerà alla tortura anche le consorelle orsoline e al rogo Urbain Grandier. È possibile infine leggere questo capolavoro di Russell come la storia di un Cristo, se non de Il Cristo: Grandier è un uomo “nuovo”, portatore di un messaggio rivoluzionario (vedi la questione del celibato su cui si potrebbe aprire un altro capitolo), lontano dalla corruzione morale, ma considerato una spina nel fianco per i grandi poteri (Chiesa e Stato) che governano le sorti del XVII secolo. Innamorato di una Maddalena (una coincidenza?) e incapace di odiare, il prete trova la propria forza dell’atto di un sorprendente perdono per la povera suor Giovanna degli Angeli e per l’intera congiura che lo condurrà a morte certa. Non vorrei rovinare nessun finale però è doveroso sottolineare che la scena della morte/passione, accompagnata da dialoghi in crescente tensione, è una delle più belle della pellicola.

Dietro queste piccole pedine della scacchiera il Potere manovra le strategie del gioco: il cardinale Richilieu con l’intenzione di risolvere la questione dei Protestanti tesse la tela delle convenzioni con il re Luigi XIII dipinto come un omosessuale misogino. Le scenografie di Derek Jarman, ispirate a Metropolis di Lang, che creano un’atmosfera surreale e stilizzata, si pongono volutamente in contrasto con la pomposità degli abiti sfarzosi e barocchi del monarca. La scelta del trucco marcato sui volti delle dame o dei morti colpiti dalla peste richiama uno stile espressionista e a tratti sembra ricordare anche le tradizionali maschere veneziane.

Uscito in Italia nel ’72 (anni cupi per la censura che pochi mesi più tardi avrebbe colpito anche Ultimo tango a Parigi) e accusato di essere la pietra dello scandalo I diavoli costò il posto al milanesissimo Giovanni Roboni che lo elogiò tra le pagine del cattolico Avvenire, ma rese la vita difficile anche ai due grandiosi attori protagonisti, Reed e la Redgrave, a cui venne vietato di mettere piede nel Bel Paese pena il carcere. Quarant’anni dopo la Warner Bros ancora non ha distribuito in dvd la versione integrale del film. Se può interessare a questo link:  http://www.petitiononline.com/Grandier/  trovate una petizione che ne richiede l’uscita.

Guardate questo film e amatelo. Quest’opera di Russell è una sconcertante parabola senza tempo che spiega quanto le facce oscure del Potere siano legittimate – come accadeva nel Medioevo, nel Rinascimento e come accade ancor oggi sotto il nostro naso) dall’abissale ignoranza degli uomini tutti.

L’unico vero posseduto è colui che ama.

 chiarOscura

 

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lanotte

Regia: Michelangelo Antonioni

Interpreti: Jeanne Moreau, Marcello Mastroianni, Monica Vitti, Bernhard Wicki

Paese: Italia, 1960

 

 

 

Nei lunghi piani dove l’interesse si sposta dall’azione a corpi e ambienti il tempo assume una gravità che spesso sembra opprimere lo spettatore. Una sensazione apparentemente negativa che è invece una delle peculiarità dell’innovativo linguaggio cinematografico di Antonioni: trasmettere attraverso l’immagine la psicologia dei personaggi delineandone il lato emotivo che si trasferisce dallo schermo allo spettatore. Definito il film dell’”incomunicabilità”, La Notte riesce a farci percepire la stessa gabbia invisibile che attanaglia i suoi protagonisti, la parziale incapacità di comprenderla e quindi di rifuggirla.

 

L’intero film diventa una sorta di vetrina dove i corpi si dispongono come automi, ignari della loro esistenza, incapaci di carpire la realtà di un mondo che basandosi sulla falsità e la precarietà dei rapporti si fa di giorno in giorno più fittizio; le mura che s’ innalzano tra i personaggi, nella società come nella coppia, si rivelano spesso nei piani dove la cinepresa si allontana tanto da creare un vuoto fisico che mima quello psicologico e il quadro si compone tra grandi pareti bianche e i soggetti che vicini ad esse diventano sempre più piccoli, inutili all’occhio della macchina come alla loro stessa vita. Dalla forma di dramma psicologico non trapela insofferenza verso la società ma immobilità, la noia di chi non riesce a ribellarsi all’ambiente, solo apparentemente vitale, che lo circonda. Siamo nella dolce vita milanese dei primi anni sessanta, dominata da imprenditori bramosi di vivere un eterno presente dove gli intellettuali privi di coscienza e amanti della mondanità altro non sono che orpelli per miliardari annoiati.

 

La Notte del titolo fa riferimento al centro narrativo del film, la festa in villa in onore di un cavallo da corsa. L’intera sequenza che ricorda insieme sia La dolce vita (girato nello stesso periodo) che La Règle du Jeu di Jean Renoir è un lungo delinearsi di quest’ambiente borghese sull’orlo del collasso. Ma se nel film di Fellini i personaggi sono immersi nell’assurdo e ne La Règle du Jeu i protagonisti sono del tutto consapevoli di vivere la vita come una farsa, gli eroi di Antonioni sono completamente succubi della loro menzogna tanto da non potersene accorgere. E’ interessante notare come in questa pellicola dove i soggetti sono incapaci di comunicare tra loro sia in qualche senso protagonista la parola. Intellettuali e imprenditori basano il loro essere sulla capacità di esprimersi, le loro parole possono sia aprire orizzonti che chiuderli, illuminare o dissimulare la realtà. Ed è appunto questa parola che paradossalmente non permette ai personaggi di comunicare.

 

Questo gioco tra noia e vitalità, verità e menzogna sembra incidersi fin dai titoli di testa dove la lunga panoramica su una Milano in fermento si chiude dissolvendosi sul volto di un uomo in fin di vita. La morte, reale, rispecchia la morte inconsapevole di una società che muove i suoi primi passi. Tommaso, amico di Lidia e Giovanni avverte solo alla fine dei suoi giorni quello che i personaggi ancora non riescono a comprendere, la vita così vissuta è una menzogna che inviluppa gli uomini senza che questi se ne accorgano. “E’ incredibile come non si ha voglia di fingere ad un certo momento” sono le parole di Tommaso che sembrano non sfiorare Giovanni ma che nel profondo toccano Lidia.

 

La donna è spesso nei film di Antonioni l’unica in grado di cogliere un senso di malessere della società riflesso però dallo schermo del microcosmo della crisi coniugale; in questo caso l’unica a percepire qualcosa è proprio Lidia, interpretata da un’imperturbabile Jeanne Moreau, la sua crisi esistenziale cerca da un lato di smuoverla, di riportarla all’azione ma dall’altro la blocca all’interno della coppia. Se ne Il Deserto Rosso, la crisi della protagonista sarà compresa, elaborata e manifestata nella nevrosi, quella di Lidia si risolverà solo nell’esteriorità, nella ricerca di un nuovo sentimento d’amore per il marito.

 

Monia

 

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“Se i nostri dèi e le nostre speranze non sono altro che fenomeno scientifici allora dovremmo ammettere che anche l’amore è scientifico”.

 

 

Regia: Mamoru Oshii

Paese: Giappone, 2004

 

Siamo alla fine degli anni Ottanta quando una nuova tendenza che affonda le radici nella fantascienza classica emerge ormai evidente nelle storie visionarie create da giovani autori e sceneggiatori di tutto il mondo; si tratta della cosiddetta scuola Cyberpunk, termine usato per la prima volta da Bruce Bethke, scrittore americano forse non molto noto e in cerca di un titolo per un suo racconto del 1980. Il neologismo così coniato ebbe immensa fortuna e da lì a qualche anno andò a identificare quel genere letterario di cui Blade Runner fu diretto precursore. In tale contesto evidentemente non ancora stabile e caratterizzato dall’evoluzione tipica delle contaminazioni esterne nasce la saga di “Ghost in the Shell”, un appassionante manga giapponese che unisce la tecnologia e la filosofia con elementi di biologia e sociologia, tutte discipline di cui il creatore Masamune Shirow ne è evidentemente un critico attento e assennato. L’universo ipertecnologico con cui l’uomo moderno è costretto a rapportarsi diviene dunque la nuova sfida del futuro.

 

E un’abile prefigurazione ne è la trasposizione cinematografica ad opera di Mamoru Oshii, maestro vivente dell’animazione filmica e autore de “L’attacco dei Cyborg” internazionalmente conosciuto come “Innocence”. Il lungometraggio, che partecipò alla selezione ufficiale a Cannes (uno dei rari film in animazione che figura in concorso al Festival), è arrivato nelle sale giapponesi nel 2004 per approdare in Italia due anni più tardi. Sequel di Ghost in the Shell del ’95, il film è in realtà una storia del tutto autonoma che trae ispirazione da un unico capitolo dell’omonimo fumetto.

È il 2032 e quella porzione di umanità scampata all’estinzione tenta a fatica di convivere con replicanti artificiali, robot e cyborg, spesso difficili da distinguere poiché perfettamente identici agli essere umani in ogni dettaglio. Il protagonista Batou è il glaciale detective della Polizia, un uomo schivo e solitario ma anche estremamente sensibile e malinconico. Nel primo episodio della serie il maggiore Motoko Kusanagi, cyborg della polizia e collega di Batou, viene data per dispersa nell’immensità della “rete”, una perdita incolmabile per il detective che spesso ne lamenta la mancanza. Fiancheggiato dal giovane Togusa, Batou indaga su misteriosi omicidi ad opera di ginoidi, ovvero androidi femminili creati esclusivamente come strumento sessuale e prodotti in serie dall’azienda Locus Solus. In prima battuta l’attenzione si rivolge verso il movente terroristico ma ben presto emerge una scomoda verità, quella che vede le ginoidi dotate di un’anima umana, appunto una “ghost”. Ed è proprio tale caratteristica a renderle un prodotto esclusivo.

 

Questo secondo episodio di Ghost in the Shell rappresenta una grandissima riflessione sul futuro dell’intera umanità, sull’autocoscienza dell’uomo e sulla lotta contro l’estinzione. È difficile credere a un mondo futuristico in cui gli esseri umani si priveranno del corpo per allontanare i danni dell’invecchiamento. Eppure il concetto di uomo-macchina – e qui le citazioni filosofiche e letterarie si sprecano –  non è una realtà tanto assurda o estranea come può sembrare. Il racconto apre lo scenario a diversi livelli di interpretazione fra cui, forse il più significativo, quello che riguarda l’identificazione dell’uomo in un quasi dio in grado di creare la vita a propria immagine eliminando però le imperfezioni che rendono dolorosa l’esistenza sensoriale. C’è qualcosa che dunque lo avvicina al divino e specularmente lo rende simile, se non identico, al suo perfetto duplicato artificiale? Le musiche paiono canti salmodianti che esprimo tutta l’inquietudine di fronte a tale quesito. I protagonisti di Ghost in the Shell sono eroi moderni che non posseggono l’integrità di un dio idealizzata ma piuttosto il turbamento romantico di un’umanità tesa a confrontarsi con sentimenti contrastanti, ricordi annebbiati e dubbi morali. L’umanità intera presentata da Mamoru Oshii è come un corpo sanguinolento, provato da un antico martirio, un nuovo Cristo che si flagella sulla croce ma questa volta senza remissione dei peccati perché la resurrezione non è contemplata. E allora perché procedere instancabilmente verso la perpetuazione di noi stessi? A tal proposito Batou è il solo che fornisce una via di riflessione ricordando al suo giovane collega che quello che il corpo crea è nient’altro che un’espressione del DNA quanto e come il corpo stesso. I sistemi entro cui gli esseri umani organizzano la propria esistenza non sono che estroflessioni di una memoria interna, o meglio ancora, sono la manifestazione in scala più ampia di un codice intrinseco spesso sottovalutato. Osservazioni all’apparenza banali ma che vanno a toccare tratti significativi dell’antropologia umana e animale intrecciandosi con considerazioni di ordine etico e genetico e spingendosi fino all’ipotesi dell’esistenza di un altro genere di essere vivente, non terrestre, o semplicemente sconosciuto. Nell’universo cyberpunk di “Innocence” le anime sono software che vagano nell’immensa rete esattamente come il maggiore Motoko che non sa dirsi ne triste ne felice, ma semplicemente libera da dubbi e dai rimorsi. Inutile dirlo, siamo molto oltre la Matrix dei fratelli Wachowski.

 

Un capitolo a parte meriterebbe l’animazione in 2D combinata con la computer-grafica 3D, tecniche che danno vita a un realismo sopraffino. L’effetto scenico di alcune immagini (le immense architetture gotiche per esempio) non ha a mio avviso pari nella storia dell’animazione moderna. Le immagini del capitolo denominato “Il regno dell’anarchia” sono veri e propri quadri in movimento dal vago gusto onirico. Diverso da quello della Pixar, il tratto di “Innocence” è volto a ricreare un’immagine di realismo direi quasi maniacale, tipico dell’immaginario orientale, dove anche il particolare ha un’attenta collocazione nella complessità della storia. Anche l’immagine della locandina, poi usata come copertina del dvd, ha un che di geniale: il cane di Batou in compagnia dei resti di una ginoide rappresentati insieme formano un bizzarro accostamento, come a dimostrare che, contrariamente agli uomini, animali e cyborg conservano qualcosa che va oltre una umanità surrogata. L’oggetto del nostro amore è quella persona o cosa di cui ci occupiamo, è “l’altro” che gode delle nostre attenzioni, che esiste a prescindere, autonomo, slegato, libero. E non ha nulla di che spartire con la contemplazione vanitosa del sé.

Su “Ghost in the Shell” c’è tanto altro da dire e da osservare ma preferisco terminare qui le mie personali dissertazioni su questo splendido film, sperando di aver comunque incuriosito il nostro lettore. Una pellicola cyberpunk di un grande autore che riscopre l’intensità della fantascienza e le sue infinite potenzialità pre-visionarie. 

 

chiarOscura 

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Titolo: Les Amants réguliers

Anno: 2005

Paese: Francia

Regia: Philippe Garrel

 

 

Ogni volta che assisto alla proiezione di un film di Philippe Garrelll avverto sempre più la distanza tra cinema europeo e cinema americano e più precisamente cresce un’insofferenza per quello statunitense dell’ultimo ventennio che via via mi colpisce sempre meno, con qualche apprezzabile eccezione s’intende. Leone d’Argento a Venezia 2005 (quell’anno vinse il Festival un impavido Ang Lee) Les Amants réguliers è un ritratto in bianco e nero del Sessantotto parigino.

   Il protagonista è il romantico François Dervieux interpretato da Louis Garrell, il bel tenebroso di The Dreamers nonché figlio del regista. Il giovanissimo poeta non ha nessuna intenzione di svolgere il servizio militare e così viene sottoposto a processo e condannato per diserzione. Nel frattempo frequenta un gruppo di amici che si ritrovano nella casa di Antoin, giovanotto borghese della Parigi da bene che passa il tempo a fumare oppio e a organizzare feste al ritmo di This Time Tomorrow. Proprio durante una di queste feste François incontra la bella Lilie (Clotilde Hesme) e non può che innamorarsi dei sui grandi occhi scuri, scrivendo per lei poesie d’amore e passando notti insonni ad attendere il suo arrivo. La spensierata passione tra i due subisce però uno scossone quando per Lilie si presenta l’opportunità di un lavoro all’estero.

   La penultima pellicola di Garrel (l’ultima è “La Frontière de l’aube”) è un racconto sull’uomo fatto di lunghi piani sequenza, dialoghi sussurrati e scomposti e inquadrature dal sapore nostalgico, ricreate sulla base di quelle realizzate per “Actua I”, un corto girato alla fine degli anni Sessanta dallo stesso regista ma andato perduto. Saremo mai “amanti regolari”? In questo film ci sono molti elementi all’insegna della regolarità: regolare è l’autorità militare, regolare è logica del lavoro che ti costringe a partire, regolare è anestetizzare i sentimenti. E tutto quello che non è regolare è proprio l’uomo che, attraverso le angosce e le insicurezze di un amore, ma anche di una vita, si rivela profondamente inadatto all’esistenza, si mostra per quello che è nella verità della propria natura. Quando Lilie fugge Oltreoceano François rimane disperato, come un bimbo senza nessun appiglio. L’instabilità che fuggiamo è “regolare”, è la quotidianità, è la prassi con cui modelliamo le nostre emozioni, e in particolare è la convenzione utilitaristica con la quale noi occidentali conviviamo – e diciamocelo anche –  senza darci eccessiva pena. Da quel turbolento Maggio parigino, sembra suggerire Garrel, il fallimento della Rivoluzione ha gettato l’uomo nella cupezza della disillusione. E questo sconforto non ha certo giovato alle successive generazioni. Les Amants réguliers non è un inno al pessimismo cosmico e nemmeno un indigeribile polpettone come è stato scritto su alcuni illustri e vergognosi giornali di casa nostra. Les Amants réguliers mette in luce il vero problema che riguarda il passaggio di testimone da una generazione all’altra: “A vent’anni – come spiega lo stesso Philppe Garrel in “Il cinema, il maggio e l’utopia” – si deve lottare: a cambiare da una generazione all’altra sono le motivazioni per cui si combatte. Ciò che non si può trasmettere è la prova iniziatica attraverso cui passa una generazione. Per i nostri genitori era prendere parte alla Resistenza. (…) A noi che siamo venuti dopo, era come se spettasse il peso e l’iniziativa di questo nuovo lavoro: la rivoluzione”. La tenera sequenza del trucco del coltello in cui l’anziano e il giovane si mettono a confronto attorno a una tavola apparecchiata è l’esatta metafora di quanto sopra detto.

    Considerato da molti il gemello francese di The Dreamers (2003), il film di Garrel contiene molteplici riferimenti alla pellicola di Bertolucci. A cominciare dall’interprete maschile, Louis Garrel, che si trova meravigliosamente a proprio agio nei panni del poeta maledetto. Inoltre i costumi di scena sono stati reimpiegati dal set di The Dreamers. Ma soprattutto è l’argomento che accomuna i due lavori cinematografici: entrambe le storie sono come cronache di amori perduti, e forse mai realmente posseduti, nel contesto degli eventi che caratterizzarono il Sessantotto francese. Nel corso della storia compare anche un breve scambio di battute tra Lillie e un altro giovane del gruppo durante il quale si cita Bernardo Bertolucci; attraverso un inaspettato sguardo in camera della ragazza si pronuncia il nome del regista italiano in riferimento al suo film “Prima della Rivoluzione”. Un omaggio o una critica al maestro italiano? Io propendo più per la seconda ipotesi.

    La regia di Philippe Garrel è come di consueto sobria ed elegante. Sempre coraggiosa la scelta del bianco e nero e anche la lunghezza del film (3 ore!). Non ci sono sbavature, eccessi e nemmeno dimenticanze. C’è tutto ciò che serve per capire le illusioni di una generazione e il fallimento destinato a perpetuarsi nel tempo. Nel testo, a cura di Daniela Basso, allegato al dvd del film (condivido la scelta distributiva per una riflessione postuma sul Sessantotto), viene ricordata un’osservazione di Italo Calvino a proposito del Maggio francese; camminando per le strade lo scrittore percepiva un senso di liberazione e di leggerezza perché le folle erano finalmente libere e gli psicoanalisti erano rimasti con le mani in mano, senza lavoro. Oggi il lettino dello psicanalista è più affollato che mai e lo spirito di aggregazione è stato sostituito senza indugio dall’individualismo totalizzante, dal buco nero della solitudine intima.

Forse da qui dovremmo ripartire.

 

chiarOscura

 

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Produzione: Francia, 1967

Regia: Eric Rohmer

Interpreti: Haydée Politoff, Patrick Bauchau, Daniel Pommereulle

 

 

Jean Marie Maurice Schérer meglio noto al grande pubblico come Eric Rohmer diede inizio al suo approccio col mondo dell’arte attraverso la scrittura letteraria pubblicando all’età di 26 anni il suo primo (e unico) romanzo “Élisabeth”. E proprio il mondo della letteratura, nonostante a breve non sarà più la sua prima occupazione, rimarrà una costante per tutti i suoi film e per le appassionate riflessioni che ne deriveranno. Sul finire degli anni Quaranta il giovane Rohmer entra in contatto con le più famose riviste di critica cinematografica parigine e dunque con quelli che noi oggi consideriamo i maggiori esponenti della Nouvelle Vague – Truffaut, Godard, Rivette – iniziando così l’attività di regista.

 

Il primo lungometraggio di Rohmer ad essere distribuito in Italia è “La collectionneuse”, considerato il quarto dei sei “Racconti Morali” e il terzo per ordine cronologico. Datato 1967, il film vinse l’Orso d’Argento a Berlino e, come gli altri Racconti, si concentra sulla crisi sentimentale del protagonista maschile. Adrien è infatti un giovane antiquario che decide di passare le vacanze estive lontano dalla propria ragazza. Per l’occasione si rifugia in una villa vicino a Saint-Tropez con l’amico Daniel. Qui soggiorna anche Haydée, una bellissima ragazza che usa trascorrere ogni sera con un uomo diverso, e il cui comportamento causerà non pochi problemi ai due amici. Se all’inizio Adrien e Daniel la considerano insignificante sia per aspetto che per intelletto, la ragazza si trova presto ad essere l’oggetto del disprezzo dei due amici che sono intenzionati a passare l’estate nel più completo ozio. L’unico che tenta di stabilire un contatto amichevole pare Adrien che spinto da buoni propositi una mattina la invita a fare il bagno insieme. La convivenza tra i tre ragazzi prosegue dunque tra alti e bassi, tra momenti di profonda sintonia e di abissali incomprensioni fino all’arrivo di un collezionista inglese a cui Adrien spera di vendere un prestigioso vaso antico.

 

Ma per quale motivo i due ragazzi disdegnano così fortemente la vicinanza di Haydée? La ragione è chiara fin dall’inizio della narrazione: Adrien e Daniel rimproverano alla giovane di non saper scegliere un solo uomo tra gli uomini che entrano ed escono dal suo letto quasi per noia. Anche Haydée per loro è una “collezionista perché, senza premeditazione, cerca quello che vuole tra mille altre cose e per questo avrà sempre bisogno di un insieme”. Ciò che conta e che caratterizza l’esistenza per i due protagonisti maschili è l’esclusività, unico parametro che determina la purezza di una scelta; in aperto contrasto con il pensiero della ragazza per la quale ogni avventura altro non è che “ricerca”, con il solo scopo di accumulare sensazioni. Adrien rimarrà fino alla fine insensibile al fascino nascosto di Haydée?

 

Una mise en scène scarna ed essenziale caratterizza l’opera di Eric Rohmer a cui riserva un’ambientazione bucolica, tipica dei sui film e che sottolinea il profondo legame con la natura. Digressioni filosofiche e letterarie affidate al protagonista maschile sono presenti in quasi tutti i dialoghi costruiti con gli stessi attori in fase di stesura della sceneggiatura. Patrick Bauchau è Adrien, un personaggio annoiato e soprattutto distaccato dal rapporto sentimentale che lo lega alla sua ragazza in partenza per Londra. È in qualche modo attratto da Haydée ma sa che cedere al suo magnifico corpo comporterebbe una scelta indegna per la sua morale e significherebbe cadere nella “collezione” della giovane. Daniel è interpretato da  Daniel Pommereulle e il suo è un personaggio aggressivo e particolarmente irritevole, tanto che spesso pare solleticare la bella Haydée per compiacersi della propria superiorità morale. Infine la protagonista femminile interpretata da Haydée Politoff è l’ambiguità incarnata, un mix di innocenza e sensualità che Rohmer ha saputo perfettamente cogliere e portare sullo schermo. La Politoff è a ragione una metafora del cinema rohmeriano: rappresenta l’essere umano nelle sue molteplici sfaccettature, nei suoi pensieri e ripensamenti, nelle sue convinzioni e nel suo cedere alla tentazione. La fisicità di Haydée riassume l’intento del regista francese teso a sondare la natura umana e in particolar modo il campo intellettuale dei personaggi. Anche “La collezionista”, in linea con la cinematografia di Eric Rohmer, non sottopone mai la storia a un giudizio critico bensì alla sola osservazione, quasi stessimo assistendo divertiti a un esperimento scientifico sulle (in)capacità umane di intrecciare rapporti.

Uno scorcio antropologico che nasconde per mostrare. Un cinema che prolifera e che – per nostra fortuna – non smette di sorprendere.

 

chiarOscura

 

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Regia: Matteo Garrone

Interpreti: Rossella Or, Monica Nappo, Salvatore Sansone

Produzione: Italia, 2000

 

 

Arrivato nelle sale alla fine del 2000, Estate romana è un classico esempio della sottovalutazione mediatica a cui il nostro Paese è soggetto da ormai parecchio tempo. La tv italiana, complice di aver sopito qualsiasi impulso culturale, non avrebbe la forza di ospitare una pellicola come quella di Garrone se non relegandola ai contenitori un po’ defilati come Fuori Orario. Sarà che i tempi non sono ancora maturi o sarà che i geni rimangono sempre incompresi, ma sta di fatto che Gomorra, grazie a Cannes, ha ottenuto una visibilità tale che sugli schermi italiani sarebbe stata impensabile. Ecco dunque che anche i giornali nostrani si accorgono finalmente di questo Autore italiano che ha lavorato con discrezione e autonomia per portare al cinema ciò che ha voluto. Un privilegio che di questi tempi non è poco. Estate romana rappresenta una tappa essenziale per approfondire la poetica garroniana e la singolarità della sua opera.

 

In un’estate torrida, nel pieno dei lavori per il Giubileo, Roma osserva distratta l’esistenza di tre personaggi, un uomo e due donne, che per qualche giorno condividono lo stesso tetto. Rossella, Salvatore e Monica sono alla ricerca di se stessi perché di se stessi sanno poco o nulla, sono sognatori annichiliti dall’incomunicabilità tipicamente urbana.

 

Tra i protagonisti va segnalata Rossella Or che per ha creato un personaggio intenso e bizzarro. Cammina come alienata, si muove senza controllo e riesce trasmettere quel senso di disorientamento come se la mdp l’avesse scovata per caso tra le vie della città. Tornata a casa (nella sua casa) anche qui rimane un’estranea persino per quelli che l’hanno conosciuta e amata. La danza liberatoria che compie sulla spiaggia è forse l’unico momento di contatto col mondo e, come quando si trova sul palcoscenico di un teatro, la donna si sente finalmente libera dalla paura. Rossella, a differenza degli altri personaggi, non riesce neppure ad abbozzare vagamente i suoi progetti futuri: esiste solo nello spazio del film, ecco tutto.

 

La mdp – che il regista romano dirige sempre in prima persona – si muove con i personaggi, ma mai in funzione di essi. Stravolgendo il punto di vista Garrone consente allo spettatore di cogliere particolari sempre nuovi ad ogni visione della pellicola. Lo studio del colore e l’attenzione per la fotografia (affidata al giovane Gian Enrico Bianchi) conferiscono alla pellicola un respiro avanguardistico. Queste accortezze tradiscono i trascorsi da pittore e fotografo di questo regista quarantenne che sta sorprendendo l’Italia con il suo ultimo film premiato a Cannes. Le musiche, curate dalla Banda Osiris, rendono ancor più trasognata l’atmosfera. Non senza qualche eco “morettiana” Estate romana è un quadro in movimento che attraverso la dinamicità, a volte nervosa, delle inquadrature esprime tutta la staticità dell’esistenza umana. È un dramma collettivo sulla classe basso-borghese romana, ma anche una commedia sull’inettitudine dell’esistenza, che ingombra lo spazio, come il mappamondo che i protagonisti non sanno a chi lasciare.

 

Tutto il cinema di Matteo Garrone è una sfida da raccogliere. E se Gomorra rappresenta la sfida civile, Estate romana è senz’altro quella esistenziale.

 

 

chiarOscura

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