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Archive for the ‘Commedia’ Category

 

 

Regia: Jacques Demy

Interpreti: Catherine Deneuve, Françoise Dorléac , Gene Kelly, Michel Piccoli, George Chakiris,

Paese: U.S.A. 1967

La naturalezza con cui si vive l’amore scoperto, ritrovato o perduto rappresenta il “ritornello” che caratterizza per intero la pellicola: l’emozione è vissuta non con la morbosità del lirismo amoroso, ma attraverso un sentimento di leggera malinconia venato da una pacatezza che sembra costantemente riflettersi anche nell’utilizzo della musica, ma, specialmente, nel modo di colorare il quadro, nei toni “pastellosi” che illuminano, o meglio rende dire, ovattano la bella cittadina di Rochefort e i suoi abitanti.

 

Al centro della storia vi sono due sorelle: Delphine, insegnante di danza, e Solange, compositrice, rispettivamente interpretate da Catherine Deneuve e Françoise Dorléac – sorelle anche fuori dal set – che sognano di trovare l’uomo ideale e di trasferirsi a Parigi per avere l’opportunità di una vita più movimentata rispetto a quella offerta da Rochefort. Altra protagonista è la madre delle due gemelle, proprietaria di café nel centro cittadino, dove avrà l’occasione di realizzare svariati incontri, tra i quali, quello con un marinaio artista e poeta che, come le sue figlie, sogna la donna ideale, già dipinta in un quadro, la quale somiglia in modo impressionante a Delphine. Tra le vicende delle tre donne s’intreccia anche quella di Monsieur Dame (Michel Piccoli) un misterioso signore proprietario di un negozio di musica che si è appena trasferito a Rochefort al fine di ritrovare l’amore perduto dieci anni prima a causa del proprio nome.

Il secondo musical di Demy s’inserisce nella scia de Les Parapluies de Cherbourg e al contempo se ne distacca per il buon umore, immergendosi così nel clima di spensieratezza “pop” degli anni ’60 non ancora toccati dal Maggio e lontani dal cinema qualunquisticamente definito “impegnato” (termine, a mio avviso, dal significato quantomeno effimero poiché un film, nel momento che trasmette un messaggio personale quale che sia, è già a suo modo “impegnato”) che nel periodo stava assumendo sempre più rilievo nella produzione dei “colleghi” della Nouvelle Vague. Nella pellicola si ritrova, semmai, la tradizione del musical americano nella scelta della spettacolarizzazione, in particolar modo nelle coreografie e nei motivetti orecchiabili cantati dai protagonisti, nonché nel chiaro omaggio alla figura di Gene Kelly (che nella pellicola presta il volto a Andy Miller) indimenticato protagonista del genere.

Tuttavia l’anima stessa della pellicola rimane, come è giusto che sia, permeata da un gusto tutto europeo per l’intimità che essa è capace di creare con lo spettatore, dove la commedia musicale è intrecciata a quella sentimentale e vuole, prima di tutto, trasportarci in un’atmosfera sognante. Ad influenzare questo clima incide non poco la scelta della fotografia e dei giochi cromatici presenti nel maquillage dei protagonisti e delle città, in grado di rendere l’atmosfera profondamente favoleggiante. Ipnotizzato, poi, dalle note di Michel Legrand, spesso molto simili tra loro, lo spettatore sedotto precipita su una nuvola, come sembra simboleggiare la splendida chiusura a iride di un azzurro cielo, dove a dominare è un clima di spensieratezza che, grazie al favoloso tocco di Jacquot de Nantes, ha però la profondità che solo l’autentica felicità sa avere.

Monia


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Regia: Woody Allen

Interpreti: Rebecca Hall, Scarlett Johansson, Javier Bardem, Penelope Cruz.

Paese: Spagna, Usa, 2008

 

 

Senza rivelare troppo della trama del nuovo film di Woody Allen mi limito a dire due parole sull’intreccio: due amiche, Vicky (Rebecca Hall) e Chrstina (Scarlett Johansson), spinte da motivi diversi trascorrono l’estate a Barcellona. Durante il soggiorno catalano una sera al ristorante le due fanno conoscenza con un pittore (Javier Bardem) noto alle cronache rosa per il burrascoso matrimonio con la bellissima Maria Elena (Penelope Cruz). Una proposta sessuale espressa senza mezzi termini darà inizio alla bizzarra storia di “Vicky Christina Barcelona”, un po’ comica, un po’ spensierata, un po’ sentimentale.

Le reazioni delle due ragazze rispecchiano le diverse visioni dell’amore: Vicky appare la donna sicura che rincorre un futuro solido e in parte già programmato con un uomo altrettanto concreto; Chrstina invece non si sottrae a quello che la sorte le pone di fronte vivendo l’amore con estremo romanticismo e un pizzico di ingenuità. Ma le due giovani non rappresentano le uniche tipologie femminili presenti nella storia: altre donne si sovrappongono alle vicende di cuore di Vicky e Chrstina, tra cui l’amica di famiglia che le ospita in casa, e soprattutto la ex moglie del pittore Juan Antonio, una stratosferica Penelope Cruz nella parte della sensualissima e folle Maria Elèna. Sensi di colpa, desiderio di cambiamento, passioni soffocate sono tutti gli ingredienti che rendono la pellicola un realistico spaccato delle donne europee e americane. Forse questo non dimostra che Woody Allen sia un perfetto conoscitore della psicologia femminile ma è senz’altro indubbio che molte spettatrici si siano facilmente identificate nei personaggi. Non solo: il regista di “Manhattan” traccia una distinzione ben riconoscibile tra America e Europa, presentando un sentimento come quello amoroso alla stregua di un espediente per evidenziare la profonda diversità di tradizioni, vedute e pregiudizi, in entrambe le parti s’intende.

 

È vero che i rampolli della middle-class americana sono così infinitamente noiosi? Perlomeno come li dipinge Allen paiono tutti presi nell’organizzazione di informali incontri di lavoro. Al di là dei tipi umani rintracciabili in questo film il regista sembra più orientato a evitare classificazioni di sorta e, come denuncia la stessa Christina in un dialogo con Doug, risulta poco sensato continuare a catalogare esistenzialmente gli uomini in base ai gusti sessuali o all’estrazione sociale. Vero è che questo atteggiamento spaventa ancora i benpensanti ma accoglie invece i favori di un “avanguardista comico” come Allen che senza pudori porta al cinema le pecche della classe media americana. Il personaggio di Chrstina diventa la metafora di un giovane Paese aperto alla convivenza multietnica ma spaventato da un cambiamento incontrollabile. La travolgente Penelope Cruz – magnifica sotto tutti gli aspetti –  incarna al contrario una Barcellona complessa, a tratti isterica, ma pur sempre profondamente artistica e attraente. L’aspetto moderno e dinamico di questa città si riconosce in tanti elementi presenti nel film tra cui e soprattutto la cucina, inteso come luogo in cui i protagonisti si ritrovano a discutere e a riflettere.

 

Infine ho trovato interessante l’idea che Woody Allen si è fatto della solidarietà femminile in genere. Una solidarietà rara ma intensa che quasi estromette completamente l’uomo, in questo caso Juan Antonio, il motore della vicenda amorosa, come fosse un banale espediente per comunicare e sostenersi vicendevolmente. L’impressione è che Allen dia per assodato tale comportamento tra donne (e spesso non è così) e che lanci un messaggio provocatorio al genere maschile, spronando gli ometti ad avere più coraggio nell’approccio col gentil sesso. Quante donne prenderebbero seriamente in considerazione la sfrontata proposta sessuale di un pittore sconosciuto? A prescindere dal fatto che l’attore sia un irresistibile Javier Bardem io credo che la risposta risieda nell’esigenza sempre più femminile di distinguere l’atto sessuale dal coinvolgimento sentimentale, due elementi che possono coesistere e allo stesso modo non coesistere in totale e sublime serenità. Al di là dei canoni che la società impone, la libertà di amare un essere umano che incontriamo è in realtà il più grande atto d’amore verso se stessi, è un arricchimento senza pari. È per tale ragione che il bacio tanto discusso tra la Johansson e la Cruz trovo non sia un’espressione banalmente omosessuale bensì sia un puro e semplice atto d’amore.

La scelta delle musiche ricrea perfettamente l’atmosfera di una Spagna dove tutto può avvenire. Mi chiedo se Allen avesse potuto girare lo stessa storia in un’altra città europea e subito tristemente mi rendo conto che nessuna tra quelle italiane sarebbe stata una valida alternativa.

 

Pubblicata per la prima volta su http://www.cineboom.it 

 

chiarOscura

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Regia: Gianni Di Gregorio

Interpreti: Valeria De Franciscis, Marina Cacciotti, Maria Calì, Grazia Cesarini Sforza, Alfonso Santagata e Gianni Di Gregorio

Produzione: Italia, 2008

 

Gianni è un uomo di mezza età che vive con la madre vedova in un appartamento di Roma. Alla vigilia di Ferragosto l’amministratore dello stabile propone a Gianni la cancellazione di alcuni debiti in cambio di “asilo” per la madre anziana che sarebbe d’impaccio durante le vacanze. La proposta è allettante e a malincuore il nostro “ragazzo” non può che accettare. Ma Gianni non poteva prevedere che l’amministratore si sarebbe presentato a casa in compagnia anche della zia e che di lì a poco l’amico medico avrebbe parcheggiato la vecchia mamma nella medesima dimora. Circondato da quattro arzille vecchiette Gianni dovrà trovare il modo di intrattenere le donne assecondando amorevolmente le loro esigenze ma soprattutto tenterà l’impresa di sopravvivere al giorno di Ferragosto.

 

Prodotto dalla Archimede Film e realizzato con l’aiuto di Matteo Garrone, “Pranzo di Ferragosto” è una deliziosa commedia che descrive quattro storie di donne anziane e di come queste, pur abbandonate temporaneamente dai figli, affrontino le problematiche legate all’età. Il protagonista Gianni Di Gregorio, nonché regista e sceneggiatore, viene a contatto con il loro desiderio di evasione, con i loro cari ricordi e con il bisogno di affetto. Una serie di lacune a cui la nostra società occidentale non è in grado di far fronte e a cui tenta di rimediare con tanta indifferenza. La delicatezza e la sensibilità di Gianni verso le anziane protagoniste sono infatti merce rara di questi tempi.

 

L’impianto della messa in scena è teatrale e conferma la provenienza dell’autore che ha recitato anche con Grotowski e Kantor. Una tecnica precisa caratterizza la regia di Di Gregorio: l’indugio sul particolare che diviene espediente narrativo (a tal proposito è significativa la sequenza della madre si trucca il volto) e l’accortezza nel cogliere i protagonisti in situazioni non propriamente fotogeniche (ad esempio con il boccone di cibo in bocca). La mdp non è fissa e segue il personaggio cogliendo espressioni anche in primissimo piano. Tutti elementi che conducono a “Estate romana”, una delle prime pellicole del regista di “Gomorra” e che abbiamo precedentemente recensito. Non è un caso infatti la profonda traccia della poetica garroniana. Una peculiarità che emerge forte e riconoscibile nel panorama cinematografico di casa nostra: benché sia evidente il richiamo all’archetipo della commedia all’italiana “Pranzo di Ferragosto”, tra le molte altre cose, mette in luce l’originalità del cinema di Matteo Garrone che, con costanza e autonomia, ha dato vita nel tempo a una propria indipendenza autoriale. Gli interni delle case borghesi, l’estate torrida nella capitale, il viaggio verso il mare, nessi che in misura più contenuta ripropongono gli ingredienti di “Estate romana” per le cui riprese Di Gregorio ha collaborato come aiuto regista.

 

Le musiche sono di Stefano Ratchev, primo violoncello dell’Orchestra Art Academy Giovani di Roma, e del chitarrista Mattia Caratello. I due giovani compositori fanno parte del gruppo Revhertz e hanno creato musiche che evocano il “folklore romanesco”, molto simili a quelle di Tiersen in Amèlie. Un giovane direttore della fotografia, Gian Enrico Bianchi, e il montaggio di Marco Spoletini (L’Imbalsamatore e Gomorra), entrambi noti al circuito garroniano, completano il cast tecnico di questo interessantissimo esperimento filmico.

 

Chi conosce e apprezza la filmografia di Garrone capirà che “Pranzo di Ferragosto” non è innovativo sotto il profilo artistico, ma è un film che racconta – e lo fa con una più che buona regia – una storia genuina, divertente e per nulla stereotipata. La scelta di portare sul grande schermo attrici non professioniste implica una maggiore personalizzazione, anche se bisogna ammettere che in alcuni tratti si avverte la distanza tra il veterano del palcoscenico Gianni e la spontaneità un po’ forzata delle signore co-protagoniste. Dettagli comunque trascurabili quando si tratta di una brillante visione d’insieme che nel complesso lascia lo spettatore soddisfatto. Il film arriverà nelle sale il 5 settembre e sarà presentato in anteprima nella Settimana della Critica a Venezia 65.

È il caso di non farselo sfuggire.

 

chiarOscura

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Regia: Sam Garbarski

Interpreti: Marianne Faithfull, Miki Manojlovic, Kevin Bishop

Produzione: Belgio, Francia, Germania, Gran Bretagna, Lussemburgo, 2007

 

 

La prima scena del film coglie dall’alto un perfetto agglomerato urbano della provincia inglese. Il tono della musica di fondo, metallico, malinconico, fa da controcanto a questa immagine armonica. Una splendida Marianne Faithfull appare quasi nascosta da un leone di peluche, comprato per il nipote in fin di vita e che solo una clinica australiana potrà curare. Il contrasto tra finta armonia sociale e dramma diffuso della povertà occupa la parte iniziale del film. Costante come la musica di fondo, l’ingenuità anziana del viso della Faithfull è la traccia che ne attraversa i vari “capitoli”. Finta armonia sociale, quella delle banche e dei centri per l’impiego i cui dipendenti, calzando un berretto natalizio in testa o dei perfetti gessati, tagliano ogni speranza di un prestito o di un lavoro per garantire le cure al nipote. Ogni finta armonia si basa su un’espulsione, la Faithfull viene espulsa dal piano rialzato della metropoli londinese. Le porte per lei si aprono solo in una presunta discesa agli “inferi”: in un eros bar, cui si accede tramite un sottoscala, trova la sua opportunità. Qui l’attende Miklos, un impresario del sesso interpretato da Miki Manojlovic. Sembra l’esatto contrario della Faithfull, tanto lei sembra pulita, tanto lui appare sporco, tanto lui è disinibito, tanto lei è bloccata dentro quel nuovo mondo che non conosce. L’incontro con Miklos segna il secondo passaggio del film: centrale in questo caso il rapporto tra etica e lavoro.

 

Il perbenismo etico viene scardinato fin dal principio: se nessuno ti aiuta a curare un bambino che muore allora su che basi può giudicarti se rispondi a quella mancanza masturbando sconosciuti? Tuttavia questa domanda retorica non diventa giustificazione per il proprio lavoro, esso viene compiuto per un fine, solo verso quel fine i mezzi divengono nobilitati. La protagonista del film mantiene il suo carattere anche in questo secondo passaggio. Il lavoro genera appartenenza a un nuovo mondo, che irrimediabilmente l’allontana dal primo. Il terzo piano è quello della distanza.

La distanza non è immedesimazione coatta, non implica un’alienazione della propria individualità. Anzi semmai una appropriazione doppia. La prima, più evidente, è quella di un nome: Irina Palm, la “regina delle seghe”. La seconda è quella della propria libertà. Per questo il carattere ingenuo, altero di Irina-Faithfull resta intatto. La sua forma di emancipazione passa attraverso il lavoro ma è determinata dal fine che si pone, curare il nipote. Irina Palm agisce dentro la costellazione del dono, dell’amore disinteressato, ciò che viene espulso da questo mondo è la capacità accumulatrice della prestazione lavorativa. Non le interessano i soldi e quando, in virtù della sua professionalità, contratta un prezzo più alto per le sue prestazioni, ciò avviene esclusivamente per raggiungere più in fretta il proprio fine. Irina si muove tra due mondi: da una parte la malizia interessata dei salotti della provincia inglese, dall’altra la mercificazione dei corpi su cui si basa l’economia metropolitana. Li attraversa rimanendo sé stessa, rivendica il suo valore non monetario. Il suo stesso passo lento, l’ironia delle sue battute si oppone alla frenesia volgare e all’invadenza degli altri due mondi.

 

Il quarto piano è quello della contaminazione definitiva, della presa di coscienza.

Irina mantiene i patti con Miklos, rifiuta un contratto migliore. Umanizza l’impresario cinico e lo porta dentro la sua costellazione, che brilla nel sottosuolo. L’amore che ne nasce è timido, lento come lenti sono i loro corpi vecchi. Un amore intenso e certo non barocco. Lo stile di questo film non indulge a pietismi o esagerazioni melodrammatiche. E’ un film crudo, eppure profondamente poetico. Riflette su una realtà largamente diffusa del nostro sistema economico quale la riduzione a merce del corpo e lo fa comprendendo le ragioni della scelta e condannando una doppia ipocrisia: quella sociale della provincia bigotta e quella economica della coazione produttiva. La linea di fuga da queste catene è nell’amore. Nell’unica forma d’amore possibile, quello disinteressato. La scena del bacio tra Irina e Miklos è rapidissima, il film termina subito dopo. La linea di fuga porta altrove i due amanti, sebbene ai lati le spogliarelliste continuino a ballare, loro sono già su un altro piano. Ed è un piano rivoluzionario.

 

 

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Regia: Martin McDonagh

Produzione: Gran Bretagna, Belgio, 2008

 

 

Trailer italiano a parte, “In Bruges, la coscienza dell’assassino” di Martin McDonagh è una tra le pellicole recenti che rischia di essere oltremodo sottovalutata a causa di una cattiva visibilità e di una mediocre distribuzione. Non si tratta del classico live action all’americana, ma piuttosto lo definirei un drama-comedy d’azione che si sofferma, senza noiosi melodrammi, a riflettere della vita e sul suo valore.

Uscita in sala il 16 maggio il film racconta la storia dei due killer Ken e Ray, il veterano e il giovane alle prime armi, costretti a nascondersi nell’omonima cittadina fiamminga in attesa di istruzioni dal “boss”. Una coppia improbabile gironzola dunque tra i monumenti della città in cerca di un po’ di svago culturale ma con l’intenzione di passare inosservati. Grazie all’aggancio di qualche battuta bonaria, emergono gli stati d’animo di Ken, vecchio ma comprensivo, e Ray, inesperto e disperato a causa di un tragico errore che gli è costato appunto la “coscienza”. Dopo un’attesa degna di “Aspettando Godot” giunge finalmente la telefonata di Harry (Ralph Fiennes), il boss spietato dagli occhi vitrei. Ecco che le prospettive cambiano di colpo e per i due protagonisti la vacanza si trasforma in un teatro degli orrori che li costringerà a mettere a dura prova le loro scelte di vita.

 

Dialoghi rapidi si alternano a momenti di malinconica lentezza. Ma il ritmo della narrazione rimane sempre alto per tutta la durata del film. L’ambientazione è quella di una tranquilla cittadina risparmiata dalla cronaca nera la cui neutralità rende la storia ancora più torbida. Gli attori invece sono di quelli che lasciano il segno: Colin Farrell nei panni di Ray ha un’espressività impareggiabile. Sa rendersi comico, tenero e spietato nello stesso momento. Brendan Gleeson (Ken), dal grande cuore irlandese, è un perfetto uomo di teatro. Il terzetto maschile si chiude con la presenza del glaciale Ralph Fiennes, bravissimo a regalare istanti di pura cattiveria e integerrimo nel suo mestiere di killer. Musiche angoscianti accompagnano la regia di Martin McDonagh, il cui lavoro è semplice e schietto. Ottime le scene d’azione, quasi da cardiopalma. La mdp pedina i personaggi e spesso ruota loro intorno. Da segnalare la scena nella piazza centrale di Bruges in cui la mdp gira in tondo “guardando” la coppia Ray-Chloe. E il regista Martin McDonagh non dimentica di omaggiare a suo modo il cinema: nella storia si gira un film nel film con un corredo di personaggi “freaks” che ricordano tanto quelli immortalati da Diane Arbus.

 

A tutto questo fa da cornice un’elegante città d’arte, un borgo forse un po’ dimenticato, senza sole ma con tanti sorrisi. Un gioiello nel cuore dell’Europa dove le persone non sono facilmente corruttibili, dove i figli, nonostante tutto, rimangono ancora un bene da salvaguardare. Una pellicola molto poco d’Oltreoceano e tanto piacevolmente europea.

 

Teneramente scritto da: “chiarOscura”

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