Feeds:
Articoli
Commenti

Posts Tagged ‘Federico Fellini’

Regia: Federico Fellini

Sceneggiatura: Federico Fellini, Ennio Flaiano, Brunello Rondi, Tullio Pinelli

Interpreti: Marcello Mastroianni, Claudia Cardinale, Anouk Aimée, Sandra Milo, Rossella Falk, Barbara Steele, Nadine Sanders, Guido Alberti, Mario Pisu, Polidor, Ian Dallas, Edra Gale, Mario Conocchia

Paese: Italia – Francia, 1963

 

In memoria del mio amico Francesco che da ieri è solo un sorriso tra i miei ricordi più belli 

 

Costretto dentro l’abitacolo di una macchina mentre tenta di liberarsi da questa gabbia, Guido Anselmi, regista in crisi, è lo spettacolo muto per gli occhi di un’Italia presente che lo guarda e dalla quale vorrebbe scappare. Così, nel sogno iniziale che apre 8 e mezzo, Guido vola via, come in un miracolo, da questi sguardi che lo assediano e sale, sopra le nuvole, libero ma della libertà, presto portata a terra, di cui godono gli aquiloni. In ogni grande opera il principio contiene la fine e la fine il principio, dove fine e principio è, in questo caso, una riflessione metalinguistica sul significato dell’arte e il ruolo dell’artista – di un’artista – nella società a lui contemporanea.

 

La terra che tocca Guido, una volta risvegliato dal sogno, è quella di un cinema che è, al tempo stesso, una casa di cura per devianti e un’organizzazione aziendale interessata a produrre. Il regista porta in sacrificio la sua libertà a questa doppia istituzione medico-aziendale e sacrificando la sua libertà finisce con il perdere sé stesso. La sua crisi espressiva è principalmente una perdita d’identità che non riesce ad emergere pienamente, costretta dentro i sensi di colpa di un’educazione cattolica e la censura, speculare e opposta, di un nuovo mondo che ha sostituito gli imperativi ma certo non ne ha fatto a meno.

L’autorità vecchia e quella passata occupano lo spazio del film quasi per tutta la sua durata, dappertutto non si vedono altro che preti, suore, produttori opportunisti e opportunisti ancora senza produzione. A questa corazzata dell’ordine si oppongono bellezza e memoria che come un affiorare carsico, luminoso quanto rapido, in momenti imprevedibili richiamano a sé lo sguardo del regista e lo liberano dalla costrizione dei chierici e dei togati.

 

Memoria e bellezza non sono due elementi scissi. La memoria è, per il regista, il mezzo per ricostruire il proprio di senso radicandolo nella propria storia passata ed è essenzialmente memoria di un italiano cresciuto nel conflitto tra pulsione vitalistica e repressione religiosa. Attraverso il ricordo, Guido-Fellini può recuperare il proprio ruolo doppio, di uomo e regista, dove solo in virtù dell’essere il primo può anche essere il secondo. La necessità di ritrovare sé stesso e la propria felicità, risalendo a una fase dell’adolescenza non ancora traumatizzata dal rapporto con il potere, suona, contemporaneamente, come condanna del presente dell’istituzione, sia essa Chiesa, sia essa azienda, sia essa produzione, sia essa critica “canonizzata” delle precedenti tre. L’istituzione ha almeno un tratto comune in tutti e quattro i casi, che è quello della repressione dei corpi. Anche quando la critica diventa istituzione – basti pensare alla figura dell’intellettuale – l’impulso del corpo è svilito, considerato mero infantilismo del regista rispetto al piano “più elevato” dello scontro tra logiche. Le istituzioni sono accomunate dal fatto che esse ragionano in termini di salvezza, non in termini di felicità, così che la risposta del cardinale alla infelicità di Guido – “Ma chi le ha detto che si viene al mondo per essere felici?” – vale non solo per la Chiesa, ma per tutti coloro i quali hanno perso il contatto tra le parole e la materialità delle cose. In questo scontro tra metafisiche, la memoria è la porta di passaggio per pensare un mondo altro e concreto, non ancora sfigurato dalle idealizzazioni o dagli ideologismi delle autorità. Recuperato questo piano, Guido può finalmente tornare a vedere la bellezza perduta e, di seguito, può riprendere a narrare (in questo senso 8 e mezzo prepara Amarcord così come Amarcord richiama 8 e mezzo).

 

La bellezza, che nel film è rappresentata da una splendida Claudia Cardinale, prende il regista e l’uomo per mano, riportando entrambi alla ingenua verità, mai scindibile da quella macchina desiderante che è il corpo, per cui la felicità non è peccato. Lo stesso film, diventato istituzione, non ha più la forza per esprimere questa verità essenziale, così è fuori dal film che sta girando che Guido può ritrovare sé stesso, eliminando la possibilità stessa che la sua produzione si realizzi e irridendone infine gli schemi obbligati.

Guido scappa senza però scappare dal cinema e dall’arte, che, in virtù del loro legame genetico con l’imprevedibilità del bello, non sono segnati, nel destino, dalla sudditanza al falso. La bellezza è promessa di verità e felicità che non pretende di essere esaudita ma, dicendo appunto il vero, non fa altro che ricordare all’uomo come solo liberandosi dalla falsità si possa essere felici. Essa è la vera emancipazione, mai del tutto in atto, che però lascia trasparire la possibilità di un mondo diverso nella fuggevole meraviglia dei suoi occhi e nell’olocausto dei sensi di colpa indotti.

In questo mondo diverso non scompaiono gli uomini, ma solo le maschere, il clown dà il via alla festa, la banda inizia a suonare e insieme ballano preti e amanti, puttane e mogli. E quando il circo spegne le ultime luci, solo un bambino, infine, resta sulla scena, seguito dalla sua ombra, in ricordo di ciò che è stato e di ciò che sarà.

 

 

Read Full Post »

Regia: Paolo Sorrentino

Interpreti: Toni Servillo, Anna Bonaiuto, Piera Degli Esposti, Paolo Graziosi, Giulio Bosetti, Flavio Bucci, Carlo Buccirosso, Giorgio Colangeli, Alberto Cracco, Massimo Popolizio, Aldo Ralli, Cristina Serafini

Paese: Italia-Francia 2008

 

Il carattere definitivo del potere tradizionale è la sua capacità di porsi come elemento costituito-irremovibile, più esso si avvicina a questo “ideale” più appare costruito in una dimensione semplice del tempo. Ciò che il potere non vorrebbe mai avere è una storia differente da quella che di sé fa scrivere e che spesso somiglia a un “destino della necessità”. Questa è una delle ragioni per cui nessun personaggio politico o pubblico della nostra storia recente ha rappresentato la figura del “potere” meglio di Giulio Andreotti. In molti hanno provato a chiedersi chi fosse. Ciriaco De Mita, interrogato a proposito da Eugenio Scalfari, rispose di non averlo capito mai, Federico Fellini, suo grande amico, lo descrisse come il guardiano di un mistero. Difficile scriverne della vita in un modo che non lasci spazio al dubbio. Oggi, a pensarci bene, di lui ci si chiede “chi è stato Giulio Andreotti” e l’uso del passato prossimo, nonostante sia vivo, probabilmente ne indica il trapasso dalla “gloria” del mondo alla storia. Tuttavia, a riprova ultima del suo essere stato icona della sacralità “templare” del potere, ancora oggi alla domanda è difficile rispondere credendo di averlo fatto una volta per sempre.

 

L’intelligenza del film di Sorrentino sta proprio nell’aver restituito questa complessità del personaggio e, contemporaneamente, di averlo inserito in un quadro storico determinato. Riprendendo la frase con cui Andreotti liquida Eugenio Scalfari nel film, la storia era certo più complessa di quanto si possa superficialmente pensare. Al tempo stesso quella storia è esistita e può diventare oggetto di narrazione e giudizio. La contraddizione tra realismo del potere e moralità dell’azione politica attraversa la pellicola, separando Andreotti – il potere sa anche essere solitario – dalla società che lo circonda. Il discrimine tra il leader democristiano e i cavalli rampanti della sua corrente sedimenta conseguentemente una distinzione tra due modi differenti di intendere il potere. Il primo, più complesso, lega l’azione nel presente alla costruzione del futuro, il secondo, più straccione, assolutizza il presente. L’alter ego negativo di Andreotti è in questo caso Paolo Cirino Pomicino, un esplosivo Carlo Buccirosso, “splendida” icona, suo malgrado, di un nuovo mondo che avrebbe trovato la sua rappresentazione in altre ”forme” della nostra attualità. Alla stringatezza di Andreotti si oppone così la ridondanza di Pomicino, alla consapevolezza del ruolo del primo la riduzione caricaturale del proprio status da parte del secondo. La dipendenza genetica del nuovo dal vecchio fa sì che la valutazione del nuovo si rifletta costituendo anche valutazione del vecchio. Al contempo la responsabilità individuale nell’azione distingue i due caratteri nel giudizio e nella descrizione.

 

L’immedesimazione nel ruolo e la consapevolezza del proprio compito nella storia è ciò che distingue la figura di Andreotti da quella dell’arrampicatore sociale, quale nel film non è soltanto Pomicino o ciascuno degli uomini della cerchia di Andreotti, ma anche il boss della mafia Salvatore Riina. La stessa scena del bacio, una delle più belle del film, con un Riina felice come un bambino di fronte al suo primo gelato e un Andreotti rigido quanto impassibile, restituisce questa distinzione tra chi è mezzo del potere e chi del potere è il padrone. Non a caso tutte queste figure “contrapposte” finiranno in galera, destino che Andreotti eviterà per varie ragioni. E la galera cos’è? La galera è perdita del proprio status sociale di uomo libero ed esposizione del “reo” , per quanto oggi nascosto dagli istituti di pena, di fronte alla società.

 

Tuttavia un uomo pubblico non è solo ed esclusivamente tale. Il privato intreccia le nostre vite ponendo poca cura alla natura discreta del linguaggio convenzionale. Come il boss della mafia, il terribile Riina, può avere il “pacco” dei pantaloni sporco di piscio e la saliva agli angoli della bocca mentre si appresta a “baciare”, così anche un uomo certo più importante non può assicurare l’esposizione del suo “corpo” da quella “umanità” verso cui il potere si vorrebbe garantirre cercando l’inamovibilità. Questa intromissione del privato demitizza il pubblico e ne indirizza la lettura attraverso l’ironia.

Sull’ironia Gyorgy Lukacs disse che si trattava della mistica dei nostri tempi senza dei, ponendola al centro di ogni operazione artistica moderna. Nel caso di Sorrentino l’ironia agisce proprio in questa direzione, perché costituisce la trama costante del film anche nei suoi momenti “drammatici”. L’uso della musica è decisivo per raggiungere questo effetto, agendo da contrappeso rispetto alle immagini. La bellissima sequenza iniziale, ad esempio, che passa in serie alcuni degli omicidi eccellenti della storia recente d’Italia accompagnandoli con un pezzo techno – “Toop toop” di Cassius – associa la rigidità compiuta della morte alla velocità dei battiti, creando questo effetto di dissonanza tra auto-rappresentazione del potere e il suo controcanto. Solo in un caso l’ironia scompare, quando entra in scena la figura di Aldo Moro. Di fronte a ciò che è stato, e per larghi versi è ancora, il corpo morto di questo Paese l’ironia cede il passo alla tragedia.

 

In conclusione, “Il Divo” associa una profonda capacità di lettura della nostra storia recente a un utilizzo sapiente del “mezzo cinematografico” a testimonianza del talento di Sorrentino e del fatto che il cinema non è affatto un semplice mezzo. Non sempre la capacità nel narrare una storia coincide con il saperla descrivere attraverso una tecnica specifica e spesso in Italia vediamo all’opera dei narratori, raramente validi, che usano il cinema. Nel caso del Sorrentino de “Il Divo” siamo di fronte, fortunatamente, a un regista che sa esprimersi esaltando le capacità del mezzo che ha scelto. L’invito alla visione è conseguente.

 

 

Read Full Post »