Regia: François Truffaut
Interpreti: Jean-Pierre Léaud, Jacqueline Bisset, Jean-Pierre Aumont, Valentina Cortese, Frainços Truffaut, Dani, Alexandra Stewart, Nathalie Baye, Jean Champion, Nike Arrighi,David Markham, Bernard Menez
Paese: Francia (1973)
Effetto notte è chiaramente un esempio di meta-cinematografia, dal momento che usa il cinema per parlare del cinema. È questa la prima e più ovvia impressione che si prova guardando questo film, ma è altrettanto ovvio che le prime impressioni, per quanto spesso non ingannevoli, non sono sufficienti se si vuole riassumere i significati che un’opera d’arte porta in sé.
Cosa implica il ricorso alla meta-cinematografia? Esso è, innanzi tutto, un caso particolare di una tendenza più generale a fare arte parlando dell’arte stessa in cui ci si esercita che non è certo una invenzione del cinema ma che riguarda più in generale l’esperienza artistica nella sua storia. Dal meta-teatro alla meta-letteratura, passando per la meta-pittura, la storia dell’arte è costellata letteralmente da questi tentativi, non sempre fruttuosi, di usare un linguaggio per parlare del linguaggio utilizzato. Il procedimento meta-artistico è, quindi, una riflessione sul senso e sul ruolo che tanto l’artista quanto la sua arte svolgono all’interno di una società, dal momento che tenta di spiegarne il significato dall’interno agli occhi della “comunità degli spettatori”.
In questo senso l’esperienza meta-artistica, compresa quella di Effetto Notte, ha una specifica valenza politica, dal momento che non individualizza il ruolo dell’artista ma lo coglie all’interno di un contesto sociale; al tempo stesso non va inteso questo aggettivo riferito all’arte – politica – così spesso frainteso, come una sorta di sua dedizione all’impegno sociale, quanto semmai alla semplice constatazione che l’artista non si percepisce come un elemento scisso dalla realtà ma che quella realtà descrive attraverso un mezzo specifico. Effetto Notte, e più in generale il cinema di Truffaut, costituiscono un esempio straordinariamente riuscito, per leggerezza, intelligenza e bellezza del risultato, di questo atteggiamento passionale e disincantato al tempo stesso verso l’arte e, nel caso in questione, verso l’arte cinematografica.
La passione verso un’arte, che diventa “propria” con la stessa intensità con cui Truffaut diventa “proprio” del cinema, la si può facilmente intravedere nelle scene del sogno, in cui, poco alla volta, un regista ancora bambino si avvicina, in un bianco e nero non malinconico, a un cinema chiuso per rubare, di un furto non solo innocente ma diremmo virtuoso, qualche immagine del film (Citizen Kane) appena proiettato. In questo atteggiamento fanciullesco si intrecciano rischio e dedizione e più semplicemente amore verso quell’oggetto misterioso, il cinema appunto, di cui si conosceva solo la proiezione dentro un telo e non ciò che dietro quel telo preparava la visione.
Il disincanto, ironico e per questo narrativo, verso la stessa arte – ossia verso il proprio amore – rappresenta l’altro elemento che Truffaut usa per costruire il suo film e per rappresentare, riuscendoci in pieno, quanto poco o nulla di improvvisato rimanga nel procedimento artistico e come, tuttavia, il cinema non possa fare a meno di quella continua catena di improvvisazioni e imprevisti che è la vita. Questo rapporto tra arte e vita, tra elemento apollineo della linearità o della forma ed elemento dionisiaco dell’imprevedibile, costituisce la trama ironica del film in cui, proprio a fronte di una continua costruzione della scena e della rappresentazione, che dà appunto il titolo al film, ricordando quell’effetto che crea la notte in pieno giorno, si affianca una decostruzione del vitale che rischia di mandare per aria l’artificio precedente e che, solo attraverso un nuovo artificio, potrà salvare la produzione da un imprevedibile fallimento finale.
Tra arte e menzogna, tra verità e vita, Truffaut narra l’intreccio di tante storie individuali senza un elemento prevalente così che del film non si possa parlare né in termini di una tragedia né riconducendolo alla categoria della commedia, ma semplicemente assumendolo come un atto d’amore per nulla patetico, e per questo sincero, verso un’arte che si ritrova a dipendere dalla vita con la stessa forza da essa esercitata nel cercare di rendersi indipendente dalla vita stessa.