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Posts Tagged ‘Martin Sheen’

Regia: Martin Scorsese

Interpreti: Jack Nicholson, Leonardo Di Caprio, Matt Damon, Martin Sheen, Mark Wahlberg, Ray Winston, Alec Baldwin

Paese: U.S.A. 2006

Il rapporto tra la formazione storica della società americana e la “delinquenza” è un tema da sempre presente nella filmografia di Martin_Scorsese e che ha raggiunto l’espressione più evidente nelle sue ultime opere. Se “Gangs of New York” si era rivelato un tentativo mal riuscito di ricostruire l’origine stessa della comunità americana attraverso gli scontri tra differenti consorterie criminali, “The departed”, in modo più puntuale e “felice”, dipinge un affresco brillante della frammentazione cui quella società è a tal punto soggetta da mancare, per definizione, ogni possibile identità nazionale.

Il film rappresenta, così, per molte ragioni la prosecuzione di soggetti già precedentemente sviluppati dal regista italo-americano. Ritroviamo, ad esempio, l’attenzione verso una forma criminale della delinquenza, tipicamente statunitense, qual è il gangsterismo, al cui interno il regista sviluppa altri spunti classici come il rapporto pedagogico tra delinquente anziano e nuove leve, la caratterizzazione dei criminali in un modo che impedisce apodittiche valutazioni etiche, il costante richiamo al tradimento che sta alla base dello svolgimento drammatico e che, al tempo stesso, è un elemento contenutistico ben preciso.

Lo sguardo di Scorsese, quindi, focalizza, attraverso questi passaggi, una precisa forma dell’azione criminale che si differenzia radicalmente dalla tipologia classica del mafioso. Il gangster, qui interpretato da un Jack Nicholson superlativo che riduce gli altri attori protagonisti al rango di semplici comparse, a differenza dell’affiliato alla mafia non fa parte di un’organizzazione sostenuta, quando non direttamente creata, in funzione del mantenimento dell’ordine sociale classico. Egli rappresenta, semmai, la versione “diabolica” del self made man che deve mettere a frutto i propri talenti in un sistema basato sul rischio e che trova nel calcolo di quest’ultima variabile il punto di identificazione comune tra i delinquenti e gli altri agenti sociali (come la polizia investigativa o il governo federale). Per questa ragione lo scontro tra bene e male, o tra Stato e anti-Stato, è perdente dal principio, dal momento che Scorsese individua una razionalità comune nel calcolo dei rapporti di forza, sminuendo l’identificazione della “Nazione americana” con un codice preciso di valori sulla cui base stabilire cos’è bene e cos’è male.

Se la logica del rischio e il seguente calcolo dei rapporti di forza sono fondamentali in questo stato di cose, ben più della dedizione al dovere o a un ideale, il modo in cui questi protagonisti stanno al mondo è conseguentemente quello del tradimento. Nulla vi può essere di sicuro di fronte al calcolo meramente utilitario degli interessi, così che, in questo come in altri film, il ruolo pedagogico svolto dal gangster verso un proprio allievo è quello del condannato a morte che alleva il proprio boia: il riferimento ontologico alla prassi fa si che nulla possa essere dato per scontato, né la fedeltà dei figli (Colin – Damon) né quella dei padri (Costello – Nicholson).

L’America di Scorsese è corrosa da questo “virus”, priva di una fibra ideale e della possibilità stessa di essere popolo, al punto che coloro i quali rappresentano la forma classica del bene – l’individuo che agisce nella propria professione come un missionario teso a un superiore bene comune, nella fattispecie il tenente Quennan (Martin Sheen) e la recluta Costigan (Leonardo di Caprio) – non vengono risparmiati dal sistema dei tradimenti incrociati.

Emerge, in sintesi, una descrizione degli Stati Uniti facilmente inquadrabile in quella che altrove ho definito la “costellazione della guerra civile”. Questo senso comune costituisce il nesso di fondo della migliore produzione cinematografica statunitense, un segnale d’allarme sociale lanciato da anni all’interno di un pericoloso deserto ideologico che ha mitizzato una società dove il culto non regolato dell’edonismo materialistico sta minando le basi della convivenza civile. Un’opera intelligente e ben fatta, grazie alla quale emerge in pieno il grande talento di Scorsese, regista del Novecento per il Novecento, che invece perde in capacità espressiva quando si allontana da questo contesto.

 


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Regia: Terrence Malick

Interpreti: Martin Sheen, Sissy Spacek, Warren Oates, Ramon Bieri

Paese: U.S.A. 1973

Il tema della guerra civile accompagna il cinema americano, almeno nelle sue migliori espressioni, così come l’ombra farebbe con il corpo. Gli Stati Uniti d’America rappresentano un universo estremamente complesso e radicalmente conflittuale, così che solo nello scontro fratricida può trovare un’immagine fedele. I film di Terrence Malick non costituiscono semplicemente un tassello aggiuntivo in questo schema, quanto, semmai, ne esprimono la “poetica” con un’intelligenza e una coerenza difficilmente eguagliabili. Malick ha tentato di esprimere questa conflittualità nei vari stadi in cui essa si presenta e i suoi film più recenti sono un indice abbastanza fedele di questa continuità artistica. Con “La sottile linea rossa” il regista americano ha affrontato il conflitto nella dimensione classica della guerra, con “Il nuovo mondo” la sua attenzione è passata a quella dello scontro tra civiltà. “La rabbia giovane”, sua opera prima, segna, in questo quadro di interpretazione, l’ideale punto di partenza di un percorso autoriale inestricabilmente legato alla riflessione storica sulla volontà di potenza e il ruolo svolto da questa nella creazione e nella perversione della civiltà occidentale di cui gli Stati Uniti d’America rappresentano, senza alcuna ombra di dubbio, il punto culminante.

Il titolo italiano del film è, in realtà, ben poco aderente alla storia narrata. Di tutto tranne che di rabbia è intessuta quest’opera d’arte asettica, intimamente descrittiva. Anche lo spazio classico che Malick riserva all’espressione della “voce interiore” dei protagonisti, “spazio” da lui di solito fatto coincidere con l’espressione di un punto di vista non neutrale sul mondo, è in questo caso deputato a una descrizione tanto limpida quanto esclusivamente interessata a produrre un ritratto delle vicende narrate dal film nella loro dinamica sequenziale. La voce di Holly (Sissy Spacek), infatti, non fa altro che registrare i particolari dell’ingenuità candida e omicida di Kit (Martin Sheen) che l’accompagna, di delitto in delitto, verso un’ultima, irraggiungibile frontiera (rappresentata qui dal “traguardo” di una catena montuosa che interrompe l’enormità del deserto americano). Più che di rabbia è di desiderio di integrazione che si dovrebbe parlare, un paradossale desiderio di appartenenza ricercato attraverso una fuga obbligata, che non solo non fa a meno del conflitto ma lo espande al punto da metabolizzarlo attraverso l’uccisione del simile. Kit, il protagonista maschile del film, ha ben poco a che vedere con un contestatore del sistema (e forse proprio per questa ragione ne esprime le falle in modo ben più profondo). Egli è, semmai, un figlio del mondo contro cui spara, ne scimmiotta i miti (“somiglia a James Dean” chiosa l’aiuto sceriffo che lo cattura) ne usa i mezzi (spara ai pesci con la pistola e, proprio a causa dell’uso dell’arma, viene riconosciuto e costretto ad abbandonare l’eremo naturale costruito dopo aver compiuto il primo omicidio) ne esprime l’illogicità di fondo (inizia il suo percorso insieme ad Holly dopo averne ucciso il padre per futili motivi) ne apprezza e stima la dimensione poliziesca (come rende evidente il finale del film). La crudezza del narrato, che qui non equivale certo a culto della violenza rappresentata a uso e consumo dei botteghini, non fa altro che restituire magistralmente questa connessione inestricabile tra esercizio della volontà di potenza, praticato da parte del singolo contro la collettività, e fragile nonché momentaneo trionfo della civiltà-Stato occidentale che sull’esercizio di quella stessa volontà ha fondato il suo primato storico. I protagonisti del film, Kit su tutti, sono figli di un dio cannibale, elementi di una divinità sistemica che mangia ciò che produce, richiamando al proprio utero chiunque ne usi i mezzi in modo da farsene conquistare (mezzi che in questo caso sono le armi da fuoco e la violenza che attraverso di esse si esercita).

“La rabbia giovane” traccia così un quadro apocalittico nel significato espresso che individua l’unica via di fuga possibile fuori dalla civiltà occidentale e dalla sua necrosi “luminosa”, anticipando le opere più recenti di Malick. Questo contenuto così radicale trova in una forma niente affatto ridondante il suo senso più adeguato, costruito con estrema eleganza da un grande autore in quello che, almeno per chi scrive, è probabilmente il suo film più riuscito.

 

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Regia: Francis Ford Coppola

Interpreti: Marlon Brando, Martin Sheen, Robert Duvall, Frederic Forrest, Dennis Hopper, Harrison Ford, Vittorio Storaro, Francis Ford Coppola, Sam Bottoms, Scott Glenn, Christian Marquand

Paese: U.S.A. 1979

Nella prima scena del film osserviamo la distruzione di un mondo da parte di un altro mondo, sulle note di “The end” dei Doors. Il mondo che apparentemente distrugge è rappresentato da un elicottero statunitense, il mondo che viene distrutto  sembrerebbe essere la foresta di palme spazzata via dal napalm. Tuttavia, che non sia affatto così chiaro chi distrugga chi, lo rendono evidenti già le scene successive, con l’inquadratura degli occhi del tenente Willard (Martin Sheen) a cui si sovrappone lo sguardo di una divinità orientale, probabilmente un Buddha, e che dell’arte orientale incarna la fissità rintracciabile in molti canoni, ad esempio in quello etrusco o in quello egizio, fissità che ne stabilisce la differenza rispetto all’arte greca e all’arte cristiana. La sovrapposizione è il ricordo di un altro mondo che rapisce a sé il giovane tenente americano, adesso chiuso in una stanza che ne rappresenta lo stato di cattività urbana. Willard sente il richiamo della foresta dal cuore di tenebra ed è proprio la foresta la reale protagonista del film. I personaggi, Kurtz (Marlon Brando) su tutti, non sono altro che figli del suo utero e interpreti della sua lingua. Ritorniamo così alla prima scena, l’apocalisse suona per i distruttori e non per i distrutti. Di fronte alla foresta sia Kurtz che Willard sono la stessa identica cosa, la narrazione della loro storia, come dice lo stesso Willard, è semplicemente inscindibile, perché essa non esprime semplicemente il vissuto di due individui, ma un percorso che l’uomo affronta per risalire alle radici dell’uomo.

Kurtz ha già effettuato il suo viaggio, lungo quel filo di rasoio che separa il mondo del bene e del male dal suo superamento. Willard, invece, questo viaggio lo compie, accompagnato lungo il Mekong da un equipaggio che ne condivide il tragitto ma non la forza d’animo. Willard è un missionario i suoi commilitoni dei pubblici dipendenti, così che essi non riescono a superare la linea d’ombra oltre la quale si pone la raggiunta consapevolezza di sé. Non a caso Willard è l’unico, tra le persone che risalgono il fiume, che parla a sé stesso e riesce a vedere il mondo con quello sguardo perspicuo che consente di poterlo narrare agli occhi degli altri. Egli ha realmente il dono della parola e incarna, come Kurtz, la figura carismatica del “dittatore”. Questo presa d’atto si accelera mano a mano il film prosegue.

La prima tappa del viaggio porta Willard e i suoi a conoscere il reggimento di cavalleria dell’aria guidato dal folle tenente Killgore (Robert Duvall) che bombarda ascoltando Wagner e cerca uno spazio adeguato tra i missili per fare surf. Queste scene, oltremodo famose, hanno un forte impatto coreografico e rispondo all’esigenza di rappresentare lo “spirito americano” anche nella forma, dal momento che hanno il ritmo di un film d’azione. Esse introducono il tema della regressione alla ferinità che si rafforza nei “capitoli successivi”. La tentata aggressione verso le playmate mette in scena l’attacco di un branco di animali contro delle prede, branco così goffo che non riesce nemmeno a raggiungerle. La goffaggine del branco suona come una pietra tombale sul lassismo e la debolezza di una civiltà senza più virtù. Le virtù, in questo mondo, sono tutte del nemico, dell’altro, del vietcong. E di Kurtz. Il civile Willard, che prende su di sé il destino “manifesto” della tradizione occidentale facendo sesso con una donna francese dentro un’enclave colonica in quella che un tempo era stata la “loro” Indocina, conduce tutta la storia di questo mondo dentro la bocca senza fondo del covo di Kurtz.

 Kurtz non incarna tanto la dismisura del primordiale quanto le virtù di un mondo soppiantato ma niente affatto vinto:  Kurtz è il fascino del disinteressato, del missionario e Willard, che come Kurtz cerca e trova la sua missione, è chiamato ad ucciderlo per cibarsene. Attraverso questo ultimo rito di passaggio il cuore di tenebra della foresta penetra definitivamente dentro l’anima di Willard e più ancora dentro la città-civiltà dell’Occidente che, dopo il Vietnam, sente nelle gambe la fragilità di un’apocalisse non più prossima perché già in corso.

Apocalypse Now è stato letto nei modi più svariati. Una facile, ed erronea vulgata, vi ha visto un apologo del fascismo, forse indotto in questo dalle pose chiaramente mussoliniane di Kurtz, che tuttavia penso siano debitrici più delle passioni personali del co-sceneggiatore John Milius, che del senso reale del film. Altri, come Edward W. Said, hanno riletto Apocalypse Now, sulla riga del romanzo di Joseph Conrad Cuore di tenebra, individuandovi l’ennesimo tentativo di riprodurre una visione eurocentrica e imperialista del mondo che, tuttavia, mi sembra errata dal momento che individua in Kurtz il personaggio principale del film. Come dice Willard stesso “in fin dei conti era proprio dalla giungla che [Kurtz] prendeva ordini”. Per queste ragioni, Apocalypse Now mi sembra, semmai, una critica feroce del riduzionismo e del pressapochismo di una civiltà debole; un “invito” a lasciarsi compenetrare dal diverso piuttosto che a dominarlo. Una pietra miliare del migliore cinema americano che ammalia e spinge a riflettere al tempo stesso.

 


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