Regia: Michele Placido
Interpreti: Luca Argentero, Jasmine Trinca, Riccardo Scamarcio, Massimo Popolizio.
Paese: Italia 2009
Per giudicare “Il grande sogno” – l’ultima “fatica” di Michele Placido – basterebbe ascoltare l’insulsa canzoncina finale, credo cantata dalla figlia Violante, prestando attenzione alle parole e al ritmo. Il testo è un susseguirsi di ovvietà ammantate di nostalgia e melensa retorica che quasi ti viene da chiederti se il ’68 sia stato davvero un tentativo fallito di rivoluzione oppure l’ennesimo esempio di vacuo ribellismo italiano.
Chi scrive, nonostante la corrività dell’analisi storica dei tempi a me contemporanei, ha sempre avuto ben pochi dubbi nella catalogazione di quello che venne definito “l’anno dei miracoli” tra le rivoluzioni fallite, ossia tra le non rivoluzioni, che tuttavia hanno cambiato, in meglio, il nostro modo di vivere al mondo. Tuttavia, questa assodata certezza vacilla, e tanto, di fronte a un’opera che vuole apparire di testimonianza e risulta essere, infine, testimone di un residualismo e di una provincialità tutte italiane che certo, all’occhio di chi tra le varie passioni annovera anche quella dello studio della storia, non possono che richiamare una lunga tradizione di subalternità intellettuale evidentemente non scalfita dalla contestazione, par exellence, delle tradizioni.
Nel tentativo di rappresentare gli eventi della grande storia insieme ai tracciati individuali dei protagonisti del film, il regista non riesce a raggiungere alcun equilibrio. Il risultato è quello di un’opera troppo schiacciata sulle vicende individuali dei protagonisti, malamente costellata di immagini “d’epoca” usate e abusate, giustapposizione forzata tra due livelli che la volontà vorrebbe comuni e che i “fatti” vedono semplicemente scollegata.
Quello di Placido non è un film ma una lettera scritta male ai personaggi che hanno segnato la sua esperienza post-adolescenziale. La stessa scelta degli attori, quelle piccole icone dell’altrettanto piccolo star system italiano che rispondono ai nomi di Luca Argentero, Riccardo Scamarcio e Jasmine Trinca, tradisce la superficialità nell’approccio a un tema così complesso. La scelta del gruppo attoriale non è particolare da poco, perché gli interpreti non sono certo elementi neutri nei film costituendone, anzi, quella visibilità immediata in cui assenza il film nemmeno ci sarebbe. E quale viso prende un film sul ’68 che affida la propria espressione a un prodotto del “Grande Fratello”, a un interprete di asessuate pornografie adolescenziali in salsa Moccia e al prezzemolo Trinca che sta su tutto senza dare sapore a niente?
Questo ’68 ha il viso perennemente imberbe dei figli di papà e dei buoni ragazzi della provincia meridionale, che sono diventati attori in alternativa a una carriera da modelli o da centravanti del Fidelis Andria, ha l’aspetto insignificante della barba posticcia sul mento di Argentero, ha le fattezze della bonomia urtante di Massimo Popolizio. Il film di Placido finisce per non fare paura a nessuno, non trascina nemmeno nei suoi momenti di impatto drammatico, come le vicende di Avola che meriterebbero ben altro spazio nella nostra produzione artistica se questa si ricordasse di guardare qualche volta oltre il proprio ombellico, è un palese e contraddittorio invito alla rassegnazione e all’antagonismo individuale.
Eppure le questioni trattate erano di importanza primaria; l’emigrazione meridionale, l’antagonismo visto dall’altra parte della barricata, quella delle forze dell’ordine, le lotte sociali e quelle studentesche, l’emancipazione dei costumi e il conflitto dentro la famiglia cattolica. Tutti temi decisivi della nostra storia recente e che non sono mai stati trattati adeguatamente da un cinema vigliacco e barbaro che ha lasciato a un regista assolutamente privo di talento, come Nanni Moretti, il ruolo di descrivere, malissimo, gli anni più complessi e drammatici dell’Italia repubblicana, e che, una volta trattati come in questo caso, hanno preso l’inconfondibile e odioso tono del melodramma.
Infine non può passare sotto silenzio la scelta della casa di produzione, la Medusa di Silvio Berlusconi, né l\’atteggiamento isterico di Placido, alla recente mostra di Venezia, che, di fronte a una domanda in proposito di una giornalista spagnola, ha tirato fuori un capolavoro di ristrettezza mentale, dispensando urla e insulti decisamente fuori luogo, a chi, di mestiere, le domande scomode dovrebbe sempre farle (ma forse l’atteggiamento del produttore è passato a quello del regista, senza un’analoga denuncia da parte della stampa “liberal” italiana che al solito le sue battaglie le conduce a tassametro). Il ’68 è stato vissuto da molti dei suoi protagonisti con una coerenza estrema, e il caso di Adriano Sofri è a questo proposito esemplare: questa coerenza è oggi vilipesa da un potere meretricio che vorrebbe si fosse tutti puttane; chiamare i cani da guardia di questo potere, come l’impresentabile Carlo Rossella che del film è il diretto produttore, a pontificare sul senso di un’esperienza storica tradita quotidianamente per ragioni di opportunismo, non è argomento che dovrebbe indignare chi il film lo ha girato ma è ragione che dovrebbe fare incazzare chi il ’68 lo ha fatto.