Regia: Berardo Carboni
Interpreti: Federico Rosati, Melanie Gerren, Sofia Vigliar, Alessandro Haber, Mia Benedetta, Giovanna Visentin, Remo Remotti
Paese: Italia 2007
“Shooting Silvio” è un pessimo film, anzi non è nemmeno un film né un documentario, non è un attacco d’accusa né una via d’uscita, non è un messaggio in una bottiglia né una pellicola impegnata. “Shooting Silvio” è l’eco di una sconfitta politica tradotta in minorità estetica, utile solo per comprendere l’ottusità berlusconiana praticata nel tentativo, andato a segno, di impedirne il passaggio su Sky. Se le truppe cammellate che seguono il presidente del consiglio avessero avuto più intelligenza avrebbero chiesto la replica a reti unificate di questo film che non fa altro che aprire una finestra desolante sulla povertà culturale di quella giovane generazione che da Berlusconi è stata rovinata senza avere alcuna forza per preparare la sovversione del suo regime. Ma chiedere intelligenza a un berlusconiano è come chiedere a un gallo di cantare in urdu, quindi meglio evitare lo sforzo e passare in modo più analitico alle ragioni della mia critica.
Innanzi tutto, l’idea dell’arte impegnata in sé, dell’arte che intende redimere il mondo, la trovo insulsamente pedagogica e antiartistica. Piegare l’arte alle esigenze dell’ideologia significa non semplicemente perderne il senso, quanto produrre opere senza senso, che trovano nell’emotività dei contenuti un appiglio per nascondere la vacuità della forma. “Shooting Silvio” appare, infatti, come un collage poco riuscito di informazioni vecchie sul conto di Berlusconi, intervallato da sequenze recitate dalla qualità bassa. E, intendiamoci, non è nemmeno casuale il fatto che la qualità della recitazione lasci a desiderare e sembri posticcia: non penso esista forma di espressione del reale meno realistica di chi vuole a tutti i costi dare l’impressione di esprimere la verità sul reale stesso. I dialoghi sono insignificanti, la trama banale, il fascino del protagonista (Federico Rosati) profondo come quello di una striscia di carta velina, così che appare ancora più stridente il fatto che il soprannome dello stesso sia quello di “Kurtz”: se il “vero” Kurtz, sia quello romanzesco sia quello filmico, ha incarnato la profondità di un male non storicizzabile, il Kurtz di questo film è falso quanto storicamente banale. È la parodia di un aristocratico depresso, che si atteggia a vendicatore illuminato e auto elettosi tale, e sublima una depressione esistenziale di poco conto con un atto di presunto eroismo.
Da un punto di vista non più artistico ma politico, visto che anche a questo il film chiaramente aspira, l’unico valore che gli si può attribuire è quello di poter servire da utile cartina di tornasole per comprendere quanto, chi oggi ci governa, si trovi la strada spianata dalla minorità delle resistenze che incontra sia dentro che fuori le istituzioni. Il film a volte sembra voler denunciare questa stessa minorità ma è didascalico e ridondante nel senso peggiore del termine, frutto di un’afasia storicamente consolidata da generazioni di presunti giovani ragazzi di sinistra che hanno trovato negli atteggiamenti anarcoidi un paravento per le proprie bassezze e nell’ignoranza la propria casa madre. Non casualmente l’idea che esprime è che per eliminare il proprio nemico lo si debba prendere dall’interno, evitandosi così il vero passaggio decisivo in una logica della sostituzione, ossia la creazione dell’alternativa al vigente all’esterno dello stesso.
Come diceva Dossetti, non ha senso lottare dentro lo Stato ma ha senso costruirne uno nuovo. E questa massima vale sia per la politica che per l’arte. Ma la costruzione prevede una capacità di confronto, tuttavia annichilita da decenni di castrazione catodica e analfabetismo artistico. Si è ormai dimentichi del fatto che i sensi comuni non si “salvano” dall’involgarimento denunciandolo con i documentari, ma creando nuovo senso comune e nuova bellezza attraverso le nostre migliori capacità espressive. Produrre bellezza è certo più dirompente che dire che Berlusconi fa schifo, cosa su cui chi scrive concorda ma che non utilizzerebbe mai come argomento monocorde di un film, solo a volte intervallato da fragili osservazioni sociologiche. Ma produrre bellezza è difficile e oggi si ha un sacro terrore della profondità e della fatica, così prende piede l’abbandono alla faciloneria di una controproducente bruttezza, di fronte alla quale viene il dubbio che, per raggiungere il fine proposto, un suicidio generazionale (metaforico, per carità) sarebbe forse più utile di un omicidio politico.