Regia: Alejandro Amenábar
Interpreti: Rachel Weisz, Max Minghella, Oscar Isaac, Michael Lonsdale, Ashraf Barhoum, Rupert Evans, Sami Samir.
Paese: Spagna (2009)
Qualche mese fa, proprio sulle pagine di questo spazio sul cinema che non amo chiamare “blog”, sostenemmo una campagna di firme a favore della proiezione in Italia del film “Agorà” di Alejandro Amenabar di fronte alla possibilità che la sua distribuzione venisse ostacolata nelle sale italiane. Un gesto che, con il senno di poi e con quello di prima, rifarei subito per la mia intima convinzione nel dovere di difendere la libertà di espressione, ma un gesto che ovviamente si disgiunge dalla mia facoltà di giudizio sul film in questione.
Agorà, sia detto senza troppi giri di parole, non è un’opera riuscita, perché si sente troppo l’influenza di un codice linguistico contemporaneo nella traduzione per immagini del passato. Alcuni tra i dialoghi principali, soprattutto quelli che hanno per protagonisti i parabolani, sembrano ricalcati più su uno slang attuale che sul tentativo di scavare le forme linguistiche di quei tempi. Il rapporto tra il servo Davo e la sua padrona, Ippazia, è egualmente anacronistico, perché fornisce una immagine dell’amore che nel suo “sentimentalismo” richiama troppo i nostri giorni e sembra calato a forza all’interno del film, insieme ad altri errori storici voluti per esigenza di trama, come l’altro rapporto sentimentale quasi matrimoniale tra Ippazia ed il prefetto Oreste.
Il tentativo di costruire un lavoro “non politicamente corretto” risulta poi infelice una volta calato nel contesto della rappresentazione di una società, come quella pagana, che non somigliava certo a una riproposizione sotto altra maschera del salotto illuministico di Voltaire, ma grondava di sangue, di sesso e di carne ben più di quanto non appaia nel film di Amenabar. Lo stesso dissidio tra il prefetto romano Oreste, convertitosi al cristianesimo anche per ragioni di opportunità, e il vescovo Cirillo, viene eccessivamente schiacciato nel conflitto tra l’amore del primo verso Ippazia e il furore dogmatico del secondo, perdendo invece il centro reale della controversia tra i due, ossia quello del tentativo operato dal primo di bloccare l’iniziativa del secondo per la sostituzione di un potere temporale con un altro, pur ammantando quest’ultimo della sacralità del religioso. Considerando che la morte stessa di Ippazia è probabilmente ascrivibile al suo essere parte in causa, molto influente presso gli alessandrini e non solo presso il prefetto Oreste, nello scontro allora l’errore commesso non è di poco conto.
Da questo conflitto machiavellico, nel senso più profondo del termine, ne esce fuori ben poco, così come è altrettanto debole, se non inesistente, la definizione, in controluce rispetto alla figura del vescovo Cirillo, di un cristianesimo a lui fortemente avverso e non per una ragione di poco conto, ma per una interpretazione della figura del Cristo che in Cirillo era prettamente scarnificata dalla sua origine umana – non a caso Cirillo aveva una formazione platonica – a favore di una proiezione divina e metafisica dell’essere che è sempre coincisa, nel corso della storia, con l’affermazione di una concezione autoritaria della politica. La presenza vigorosa, nel primo cristianesimo, di eresie fieramente avverse alla disumanizzazione del Cristo, e quindi sostenitrici della possibilità stessa che la divinità potesse morire, cosa che Cirillo ovviamente aborriva, è qui, ad esempio, del tutto assente.
Amenabar finisce per realizzare un pamphlet debole ed è questa forse una colpa grave in un momento in cui serve un manifesto forte e da utilizzare come strumento di propaganda contro una struttura oscurantista come la Chiesa cattolica ma senza con ciò arrivare a produrre una visione manichea del cristianesimo che perde il potenziale senso rivoluzionario di quella religione nata per affermare il divino nell’umano e finita con il sopprimere l’umano strumentalizzando il divino.
Non vi è, in Agorà, poco o nulla traccia della genialità di un Ken Russell o di un Derek Jarman, quanto, nonostante l’autore spagnolo abbia mostrato in passato una grande capacità di leggere il proprio presente, come nello splendido “Mare dentro”, il riflesso della debolezza dell’Illuminismo europeo nell’affrontare la complessità delle passioni popolari oltre una gabbia del pregiudizio che conduce pressoché logicamente a una visione a là Nietzsche del mondo in cui l’aristocrazia del pensiero è l’altra faccia della brutalità del volgo. Uno schema da cui esce fuori la proposta di una società non autoritaria contraddittoriamente legata a un radicato pessimismo, o a una incapacità di lettura, verso le passioni della maggioranza che è a sua volta una fucina di autoritarismi, per quanto illuminati.
Quando ci si mette sulla strada impervia della ricostruzione storica o si decide di fare un’opera d’arte, e in quel caso la via realistica indicata da Russell e Jarman, ossia quella di una assoluta scabrosità nella rappresentazione di tempi caratterizzati dall’assenza di benessere e dalla crudeltà estrema della vita, resta la migliore, oppure, se proprio si ha intenzione di rileggere la storia con l’occhio del presente, e quindi di impegnare l’arte in una battaglia politica del tutto condivisa da chi scrive, allora ogni singolo fattore deve essere soppesato affinché quel tentativo giunga al proprio fine. In questo caso, a differenza che in “Mare dentro”, Amenabar lascia aperte molte smagliature; la speranza, forse contraddittoria, è che siano in pochi ad accorgersene.