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Regia: Alejandro Gonzáles Iňárritu

Interpreti: Brad Pitt, Cate Blanchett, Gael Garcia Bernal, Adriana Barraza, Rinko Kikuchi

Paese: USA – Messico – Giappone (2006)

“Babel” è un brutto film nato da una buona idea e da un’intuizione intelligente, anche se non eccezionalmente originale. La buona idea è quella che il mondo globale vada visto indossando gli “occhiali” dell’interdipendenza. L’intuizione intelligente è che il processo di avvicinamento alla globalizzazione abbia portato con sé una crisi dei meccanismi di assicurazione tradizionali del singolo, come quelli codificati dentro la forma storica degli Stati-Nazione, dalla cui crisi riemergono quelle vecchie forme di sostegno che erano e sono caratteristiche della cosiddetta “società civile”, su tutte la famiglia. A guardarlo bene questo processo somiglia tanto a un processo a ritroso rispetto alla dialettica hegeliana, la cui visione progressiva conduceva alla razionalità dello Stato-Nazione dopo essere passata per la fase individuale e quella familiare. La consapevolezza della crisi dello hegelismo e della sua traduzione politica, che poi è quella forma istituzionale in cui noi siamo vissuti tra la fine della Rivoluzione francese e il 1989, costituisce il senso comune più robusto per iniziare a comprendere la realtà del nostro tempo senza farlo con l’atteggiamento dei gatti ciechi e rispondendo a questo dato di fatto “Babel” rappresenta almeno un inizio. Purtroppo il film non va molto oltre questa fase iniziale e anzi si arena presto lasciando allo spettatore il dubbio di capire per quale assurda ragione un film così patetico, melodrammatico e per larghi versi altamente improbabile sia riuscito a vincere addirittura un Festival di Cannes per la migliore regia. Certo anche su questo ci sarebbe da riflettere più approfonditamente, perché dalla cancrena dei gusti estetici spesso si può risalire a ragioni di decadenza ben più profondi di un’intera società, ma per il momento soffermiamoci sul film.

L’opera di Inarritu è impostata a un pessimismo disarmante quanto giustificatorio – perché se tutto fa schifo è normale che continui a fare sempre più schifo – che trova la sua corona nella pessima dedica finale del film – Ai miei figli che sono la luce più luminosa nella notte più oscura – dove non si capisce bene se il riferimento sia a una condizione personale del regista oppure, come sembra emergere dal film, a quella Babele di linguaggi che è il mondo globale. In quest’ultimo ogni azione sembra destinata a sfociare in tragedia ma con un effetto e una rappresentazione negativa del mondo che diventa noiosa e stancante in proporzione al modo in cui gli elementi drammatici del film vengono piegati a questa esigenza. Due scene su tutte meritano la palma dell’assurdo e sono quella in cui un ordinario ragazzo messicano interpretato da Gael Garcia Bernal improvvisamente dà di matto e semina la polizia alla frontiera tra Messico e Stati Uniti rovinando professione e vita della donna, sua zia, che avrebbe dovuto accompagnare a casa e quella dell’omicidio del giovane pastore marocchino a causa di una polizia che si dedica a un tiro a segno sproporzionato su di lui, sul padre e sul fratello minore. Due scene, tra l’altro, fondamentali nell’equilibrio del film e che però non hanno alcuna ragione d’essere. Non che si voglia qui fare un elogio del realismo, anzi, ma il punto è che l’improbabilismo, termine che si può coniare ad hoc per questa opera, non mi pare porti a qualcosa di meglio. Improbabile se non assurda, è, inoltre, la concentrazione spaziale, simultanea e relazionata di così tante disgrazie sugli stessi nuclei familiari così da lasciar trasparire un indubbio debito contratto verso le soap operas nella costruzione delle trama. A tratti “Babel” sembra sprofondarti in una specie di “Un posto al sole globale” dove si è attanagliati dallo stesso analogo dubbio che l’impiego di tanti colpi di scena e degli stessi attori sia un espediente per risolvere qualche crisi occupazionale e non l’effetto di una scelta artistica e se questo ultimo dubbio è consolato e fugato dalla presenza di attori di grido e non certo disoccupati come Kate Blanchett e Brad Pitt, ciò rimane pur sempre una consolazione da poco rispetto alla prova di un Pitt che sta al cinema come un capibara sta all’eleganza  (Kate Blanchett almeno viene mandata in stato di non nuocere fin dal principio da un colpo di fucile).

La stessa rappresentazione visiva della Babele linguistica, infine, non va certo molto oltre questa immagine oleografica, per quanto alla rovescia, del mondo globalizzato. Il Messico colorato e rumoroso delle feste matrimoniali, così  come il deserto marocchino e i grattacieli nipponici sono le tessere di un mosaico da cartolina, per quanto tragica e sconsolata, che lascia trasparire piuttosto l’idea di un turista che quella di un viaggiatore o, tantomeno, di un grande regista.

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