Regia: François Truffaut
Interpreti: François Truffaut, Nathalie Baye, Jean Dasté
Paese: Francia 1978
“La camera verde” è una lunga riflessione monofonica sulla morte che ha un unico reale protagonista, Julienne Davenne (François Truffaut), e tante voci al seguito che ne costituiscono un coro non autonomo anzi semmai obbligato a sposare le posizioni del regista-attore per continuare a poter vivere della sua luce riflessa. Per questa ragione il film somiglia molto a una lunga intervista del regista a sé stesso a tratti intervallata dall’evoluzione drammatica della trama e che assume la forma, per certi versi estremizzata, dell’opera-manifesto. La poetica del cinema di Truffaut viene così ampiamente espressa grazie a “La camera verde” e tuttavia la netta predominanza di questo carattere e la contraddizione vigente tra l’obiettivo di fondo del suo cinema e la struttura dell’opera finiscono con l’indebolirla. Ma quale è il contenuto di questo manifesto? Rispondere alla domanda posta significa riflettere circa “l’etica” dell’arte, qui intesa come il suo dover essere, secondo il regista francese.
Il cinema di Truffaut radica il suo senso nel ricordo e nella sua narrazione: non è un cinema pensato per formare l’avvenire né tanto meno per criticare il presente. Sotto questo aspetto esso è l’esatto contrario del cinema secondo Godard: lo sguardo di Truffaut, che ricorda tanto quello dell’Angelus Novus di Paul Klee nella interpretazione che ne dà Walter Benjamin, è rivolto al passato e lo “onora” ridonando a esso le parole che non ha potuto dire; l’occhio di Godard riproduce immagini ed è principalmente legato al valore del fotogramma in sé, piuttosto che alla sua dinamica o al suo inserimento in un contesto narrativo, e somiglia tanto alla grandezza di Majakovsky. Se entrambi guardano alla vita, Truffaut vede in essa l’albero e si appassiona alle sue rughe, Godard vive al livello delle praterie e ha nell’occhio la fame del pioniere. Truffaut è la massima espressione dell’urbanizzazione dell’arte, Godard del suo nomadismo e una delle differenze più grandi tra i nomadi e gli urbanizzati sta tutta nel loro rapporto con i morti, tant’è che ancora oggi resiste in Mongolia l’abitudine dei primi di abbandonarne i corpi dei defunti agli avvoltoi mentre i cimiteri forniscono alcune delle testimonianze più imponenti della civiltà dei secondi.
La morte è in Truffaut un imperativo etico che rimanda alla vita. La rigidità della morte è un trauma non superato e che si ritiene insuperabile; verso di esso l’arte non agisce certo da elemento redentore, perché la sua condizione irreversibile non può essere invertita, ma solo narrata per insopprimibile esigenza dell’autore di recuperare con i propri mezzi quel filo spezzato dentro la comunità umana. La stessa apertura del film sulle stragi della Grande Guerra, che percorrono lo sguardo di un Truffaut attonito, non è altro che la precondizione per questa visione dell’arte.
Il regista, infatti, fa vivere a sé stesso l’impressione di un massacro conosciuto solo indirettamente e che tuttavia ha relegato alla condizione del silenzio perpetuo milioni di persone su cui si ha il dovere di non tacere. Rivolgendo il proprio sguardo a queste possibilità interrotte l’artista, come ricordava Paul Klee, parla al nostro mondo del mondo dei mai nati e dei morti. Ma cosa obbliga questo dovere? Al fondo vi è solo una parola per esprimere la vera e propria fede cui Truffaut, come altri prima di lui, in questo film afferma di appartenere, e questa parola è “umanità”, una “umanità” intesa come sentimento di una comune appartenenza che rende insopportabile l’idea di arrendersi alla brutalità della violenza e del dolore.
Vi è ben poco da obiettare sul fatto che Truffaut sia riuscito, con i suoi film, ad esprimere la poetica indicata ed ancora meno dubbio è che vi sia riuscito con l’intensità e la raffinatezza del genio che è stato, costruendo storie e rispondendo all’imperativo assegnatosi di costruirle tranne che in questo specifico caso. Ne “La camera verde” poco o nulla si narra e la stessa prova di attore fornita da Truffaut appare sopra le righe, esagerata come l’esigenza, a volte scaduta nel patetico a volte nel didascalico, di comunicare il senso della propria arte. La felicità del discorso meta-cinematografico raggiunta in “Effetto notte” si carica semmai di un colore sempre più cupo e di un solipsismo inadeguato rispetto all’esigenza del narrare la vita che è imprescindibile dalla consapevolezza della diversità delle sue voci e che però, infine, sembra qui svanire in luogo di una sacralizzazione della storia da cui ne esce sacrificato il presente e, con esso, la vita stessa.
Mi sembri Bukowsky che sparpaglia le parole sul tavolo di lavoro e poi per azzardo o maestria le riccoloca dandogli un senso, che invece qui manca. Hai cercato forse nel vocabolario parole sontuose, ridondanti e il suono che fa questa recensione è quella di di riempire un vuoto… Dell’Anima
Testamain
Qui fai un passo in avanti che a vederlo bene è un passo indietro. Di solito nno scrivo avendo un vocabolario a fianco, penso di avere una certa conoscenza della lingua in cui scrivo che mi esonera dal farlo (per quanto il vocabolario sia uno dei libri più belli che mi sia mai capitato di leggere). Se la mia recensione ha un suono che riesce a riempire il vuoto di un anima, come tu scrivi probabilmente senza accorgerti di quello che scrivi, evidentemente riesce ad esprimere qualcosa. A parte questa piccola notazione sulle tue contraddizioni, che solitamente sono un segno di stupidità, risulta difficile capire, appunto perchè anche tu manchi di quel senso la cui mancanza attribuisci anche a me, che cosa ti infastidisca nello specifico in merito a ciò che ho scritto. Sul senso dovresti imparare, se posso darti una “lezione” pur non avendo mai avuto grandi velleità di pedagogo – anzi – che spesso l’incapacità di trovare un senso alle cose dipende più da un difetto nel nostro sguardo che dai limiti degli oggetti che noi osserviamo.
Ripeto quanto già scritto nel commento precedente: queste sono le mie ragioni e penso che, sia nelle recensioni che in quello che ti scrivo, esse siano abbastanza argomentate. Ora se vuoi rispondere nel merito a quello di cui si parla io sarò anche felice di parlarti, ma se devi fare la tipica figura, ormai patetica, dell’incazzato da blog che per assenza di talento personale va a fare, senza troppa fortuna, le pulci agli altri, allora ti pregherei di andare altrove. E non per una ragione di orgoglio personale, cosa di cui altamente me ne fotto, ma per una ragione di economia del tempo che posso dedicare a questo spazio. Gli scontri, non necessariamente dialettici anzi, con le persone con cui si condivide poco sono, secondo me, straordinario motivo di maturazione. Ma il punto è che tu non dici nulla di specifico e quindi o scrivi qualcosa di più interessante oppure fai solamente perdere tempo a chi ti legge e a chi ti risponde.
Fuori dai circuiti istituzionali ,è stata trovata la teoria unificata, ,da un ricercatore solitario.
La Via della Verità,(l’attuale teoria unificata),fu già trovata e poi smarrita nella Magna Grecia.
Parmenide chiarì che l’Essere mentale Vero è puntiforme ,indiviso e indivisibile.
Pitagora chiarì che il mondo materiale visibile è apparente e fatto di numeri.
Poi i sofisti e gli atomisti ci portarono fuori strada.
I primi fondando il relativismo delle opinioni tutte equipotenti,(un vero assurdo che nega la Verità, persino con le congetture).
Gli atomisti capovolsero invece definitivamente il concetto di ciò che è reale e di ciò che è apparente, portando l’ipotesi di realtà sulla materia e negando persino come esistente il mondo mentale invisibile.
In realtà la materia è invece una costruzione matematica coerente ma finta,(Un’ipotesi ipotetica deduttiva. Ovvero un’ipotesi valida solo nel proprio sistema assiomatico mentale).
Pertanto i sensi e il cervello leggono come un hardware materiale ciò che è solo una simulazione matematica,(la materia).
La mente è invece un reale e puntiforme software invisibile.
Non è dunque più difficile di ieri trovare oggi la teoria unificata.
Semplicemente oggi ci sono più opinioni e congetture sbagliate da abbandonare.
Io l’ho fatto e unificando Parmenide con Pitagora ,ho confutato la via delle opinioni, ritrovando così la VIA DELLA VERITA’.
LO RIASSUMO QUI DI SEGUITO :
Parmenide intuì la non località delle particelle fondamentali, ponendo tutto nell’Essere puntiforme ,così come sta cominciando ad argomentare la fisica quantistica. Pitagora intuì che il vuoto primordiale non è affatto il nulla assoluto,(che resta un assurdo inesistente) ,ma è solo un mondo astratto fatto di numeri immateriali che rappresentano ipotesi materiali finte, che rappresentano la materia in teorema di numeri quantici, a contorno di punti spaziali virtuali.
Come si può ben vedere dunque ,secondo questa rivisitazione della Via della Verità ,effettuata con la mia reinterpretazione riveduta e corretta,la teoria unificata ora c’è.
Io l’ho trovata e non c’è più niente di utile nelle cose complesse ma sbagliate ,che attanagliano la teoria Standard indecidibile e/o incompleta e la successiva teoria delle stringhe.
Ciò a cui si riferiscono ancora mplti scienziati ,sono dunque speculazioni irresolute e irrisolvibili ,che tentano invano l’estensione dell’attuale teoria standard che rimane incompleta e indecidibile.
Bisogna abbandonarle dunque ,perché sono tutte ipotesi sbagliate.
L’estensione della teoria standard è stata già trovata da me con il pensiero sineterico, ed è ora disponibile sul sito http://www.webalice.it/iltachione nel trattato : IL TACHIONE IL DITO DI DIO.
Questa teoria è stata ispirata al mio intelletto da San Pio da Pietralcina, il quale disse: “farò più rumore da morto che da vivo “.